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Io e te

Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film

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La recensione su Io e te

di giancarlo visitilli
8 stelle

“Noi balliamo da soli”. Sembrano dirlo, anche quando la loro immobilità è evidente, i due protagonisti del bellissimo film di Bernardo Bertolucci, Io e te. Allo stesso modo di Mr Kinski e Shandurai in L’assedio (1998), o di Matthew e Isabelle in The Dreamers (2003) ma anche di Paul e Jeanne in Ultimo tango a Parigi (1972). La solitudine e l’inquietudine, da sempre, abitano i luoghi e i personaggi di Bertolucci, anche questa volta che la storia è tratta dal romanzo di Niccolò Ammaniti, che rispetto a tanti altri suoi romanzi, questo ha di intrigante solo i luoghi messi a disposizione della storia. Quella di Lorenzo, un quattordicenne introverso, che vive con difficoltà i rapporti con i suoi genitori e i compagni e Olivia, la sorellastra quasi sconosciuta.

Quando lui decide di prendersi una vacanza, chiudendosi in cantina, facendo credere a tutti che lui sia partito per la settimana bianca, per un’intera settimana lascerà fuori dalla porta tutti i conflitti e le pressioni, scegliendo di vivere quei giorni in completo isolamento, con la sola compagnia di libri horror, lattine di CocaCola, scatolette di tonno e un formicaio, da guardare al posto della TV. Ma anche nei luoghi più illuminati dalla solitudine accade l’imprevisto che può provenire da un’altra presenza, quella della sua sorellastra, Olivia, che piomba nella cantina, alla ricerca di alcuni suoi oggetti, irrompendo (e “rompendo”) nella vita di Lorenzo, rovinandogli i piani della sua fuga dalla realtà. Olivia, a differenza di Lorenzo, é una ragazza venticinquenne e ribelle. Problematica e fragile. La convivenza forzata fra i due fa scaturire litigi, discussioni violente, sfoghi, ripicche, gelosie e rivincite, portando allo scoperto le fragilità e i pensieri di entrambi, improvvisamente alla pari e immensamente bisognosi dell’affetto l’uno dell’altro.

Eppure, come tutti gli altri personaggi di Bernardo Bertolucci, trovano il tempo di ballare. Ballano da soli Lorenzo e Olivia. Allo stesso modo degli adolescenti nelle nostre case, nelle scuole, in tram, negli ascensori, e finanche a tavola, vivono le loro dimensioni, da quelle con la musica che scoppia nei timpani, fino ai film visti su schermi accecanti per le loro sempre più piccole dimensioni. Tutto in estrema solitudine. Gli altri, in tutto ciò non devono entrare. Ad ognuno la sua ‘cantina’.

Era rischiosa la trasposizione filmica di una storia semplice. Solo nelle mani e con lo sguardo di un grande regista come Bertolucci il film ha acquisito anche ciò che nel romanzo di Ammaniti manca: la verve e la possibilità che qualcuno, ma solo in quanto spettatori, possa credere ai due personaggi che per due ore, praticamente, conducono la stessa vita di molti adolescenti nelle camere delle loro case, fra lattine, iPod, merendine e libri horror, a cui si aggiungono, ma questo tutto un problema italiano, i ‘film’ horror della Maria… Bertolucci cambia il finale del romanzo di Ammaniti. Rimane uno dei pochi registi italiani, maestro anche nel dirigere gli attori. Tra l’altro, essendo, egli, immobile su una sedia a rotelle, sembra che il suo sguardo, che naturalmente non può più avvalersi direttamente della posizione eretta, abbia giovato, a lui e a noi che guardiamo, perché, è come se il punto di vista del regista coincidesse con lo stesso dei due giovani e bravissimi attori. Che sono molto materici, fisicamente e dai volti immediatamente impressionanti, entrambi da “maneggiare con cura”. Tea Falco e Jacopo Olmo Antinori sembrano a loro agio, nell’arte della recitazione, con mostri sacri del cinema e del teatro, come Sonia Bergamasco e Pippo Delbono. Bellissima, anche in questo, come sempre accade nei film di Bertolucci, la colonna sonora, che si avvale del meglio del pop e del rock, anni Ottanta-Duemila, dai The Cure di “Boy’s don’t cry” a “Sing for absolution” dei Muse.

Questo bel film di un regista che, come già nell’immenso Novecento (1976), aveva le idee chiare del nostro vivere, da soli o in comune, o come, in questo caso, rapportando le nostre tristi vite con quelle delle formiche, dalla vita sociale rigidamente strutturata, ci pone direttamente a contatto con l’interrogativo sguardo di Lorenzo, nel fotogramma finale del film. Che fa tanto I quattrocento colpi di Francois Truffaut. Forse con lo stesso significato…

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