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Hates - House at the End of the Street

Regia di Mark Tonderai vedi scheda film

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La recensione su Hates - House at the End of the Street

di scapigliato
4 stelle

L’unica idea interessante di Quella Casa nel Bosco (2012) era la riflessione sul genere horror messa in bocca a Sigourney Weaver che, oltre a ricordarci i cinque personaggi tipo che vanno al massacro – la puttana, l’atleta, lo studioso, il buffone e infine la vergine – disquisisce su questa curiosa pratica orrorifica più o meno con queste parole: “È un rituale, come un sacrificio. Ed è soprattutto una punizione per essere giovani. Se il rituale fallisce si risvegliano gli Antichi e distruggeranno il mondo. Agonia e morte per tutti”. Ergo, dobbiamo uccidere e sacrificare il corpo giovane, bello, seducente e magari pure virginale della bella di turno o del fusto esteticamente perfetto per sedare… gli Antichi? No, per sedare l’umana rabbia nei confronti di chi ha ciò che tutti vorrebbero avere in eterno più dei soldi: la giovinezza, il corpo perfetto, reattivo, la sua bellezza, il suo vigore, la sua libido. Ma la natura ci ha fatto caduchi e non possiamo restare eternamente giovani. Ecco che il rituale orrorifico esorcizza da un lato la morte – e credo sia il motivo originario e fondativo di tutta la narrativa del terrore – mentre dall’altro seda e pacifica i nostri irrisolti, le nostre pulsioni rabbiose e violente nei confronti dell’oggetto/corpo invidiato – e questa è ovviamente una lettura più soggettiva.

In House at the End of the Street (2012) la bellezza e la perfezione fisica dei personaggi principali sembra avvisarci fin da subito che ci troviamo di fronte a una nuova mattanza atta a pacificare gli Antichi. In realtà, con lo sviluppo della trama vediamo che il registra preferisce l’atmosfera e il gioco psicologico piuttosto che il sangue, e di mattanza quindi nemmeno l’ombra. Se da un certo punto di vista può essere un’idea interessante variare il cliché horror degli slasher, alla fine risulta un patetico tentativo autoriale che ingolfa il film tutto.

Avremmo voluto vedere massacrato a colpi di mannaia il giovane rampollo di buona famiglia, Nolan Gerard Funk, bello, figo, buono, che gioca coi bambini amorevolmente, che ha fondato un’associazione per combattere la fame nel mondo, ma che in realtà è un viscido viziato arrogante, che con un assegno di papà paga i viveri agli affamati dell’Africa, o dell’Asia “o comunque in un qualche paese di quelli dove si muore di fame”, come dice giustamente sua madre in un impeto di borghese arroganza. Vorremmo vedere inoltre i suoi genitori, i suoi amici – appunto belli, giovani, stupidi, sexy, etc. etc. – morti ammazzati sotto le lame implacabili della mostruosità di turno, evocata proprio da loro stessi, come insegna non solo La Casa di Sam Raimi, ma anche il già citato Quella Casa nel Bosco. In questo caso la piccola e indifesa e malata figlia dei Jacobson che una notte di tempesta impazzisce a fa secchi i genitori per poi vagare nel bosco.

Invece, siamo costretti a digerire i soprusi della classe media americana, con i suoi rampolli e le sue etichette, le sue facciate e le sue case con piscina. Il bello di un film horror e veder massacrate certe persone. Si badi bene, massacrate non per colpa della loro ricchezza o bellezza o giovinezza, quindi non per invidia – o forse sì? – ma per l’uso arrogante, disumano, superbo e spocchioso che fanno delle loro fortune. “Fortune”? (!). Tonderai invece decide di giocare ad Alfred Hitchcock senza riuscirci, e con la svolta narrativa del secondo tempo cambia completamente ogni aspettativa tradendo così di fatto la linearità del genere. Ma non è questo il punto critico del film, bensì l’impianto ideologico che gli sta dietro.

Fin dall’inizio della pellicola, il bel tenebroso Ryan Jacobson, fratello della presunta assassina fuggita nel bosco e mai ritrovata, interpretato dal triste Max Thieriot di craveniana memoria, è un eremita indifeso, taciturno e solitario, preso di mira dai compaesani, uno su tutti il futuro premio Nobel per la pace Nolan Gerard Funk, che con i suoi amici di buona famiglia non perde tempo per dargli addosso, umiliarlo, sfasciargli la macchina e bruciargli casa, in perfetto stile cristiano. Poi succede che il regista ha la brillante idea di mutare completamente le carte in tavola e scopriamo che quei borghesi piccoli piccoli con tutta la loro protervia alla fine avevano ragione a dargli addosso al “matto”, al diverso, all’escluso. Un impianto ideologico, a mio avviso, di natura opposta al genere trattato, e soprattutto un impianto ideologico reazionista pericoloso  e giustamente condannabile.

Ma se fosse solo una questione politica sarebbe poca cosa e nemmeno utile ai fini di una critica cinematografica. Il problema è che come la maggior parte degli horror degli ultimi dieci anni, anche House at the End of the Street pecca di omologazione estetica. Immagine patinata, pulita, campi e inquadrature conformiste, indifferenziate, linguaggio televisivo, piatto e appiattito per arrivare più rapidamente a qualsiasi tipo di spettatore, cliché ripetuti e ripetitivi, assenza di perturbante fisico, carnale, oltre che un’inesorabile e continua castrazione di tutto ciò che faceva horror nei ’70 e negli ’80: sesso, ribellione, disfunzionalità famigliare, anti-patriottismo, anti-militarismo, lotta sociale e anti-classista, controcultura.

Giudicandolo quindi anche puramente tecnicamente, il film è sì guardabile e ci si può pure divertire, ma è una fregature, un’inutile spreco di forze che ti lascia come se non avessi visto nulla. Peccato per la Lawrence e Thieriot, la coppia funzionava.

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