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Holy Motors

Regia di Leos Carax vedi scheda film

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La recensione su Holy Motors

di FilmTv Rivista
10 stelle

«Revivre» canta Gérard Manset nel prefinale di Holy Motors, dopo che Monsieur Oscar (Denis Lavant) è rivissuto 10 volte: finanziere tra le pagine di De Lillo e gli occhi di Strauss-Kahn, donna mendicante dall’est di Pola X, acrobata in una seduta (erotica) di motion capture. E poi scarto grottesco, Merde di Tokyo! al cimitero di Paris, padre frustrato (della figlia di Carax) in un teen movie pauperistico, musicista in Entr’acte (con a fianco Bertrand Cantat). Preda e assassino, uomo morente su partitura lacrimosa di Henry James, amante perduto nella Samaritaine, sull’abisso mélo del Pont-Neuf. Sempre se stesso, sempre in un ruolo diverso ogni volta che scende dalla limousine camerino guidata da Céline (Édith Scob) per donarsi ai set della città: Monsieur Oscar è un attore. Forse. Di sicuro è un individuo d’oggi, uno che recita su listelli di palcoscenico che si consumano in fretta, uomo al tempo della frammentazione dei social network e dei dispositivi di controllo, degli avatar e del digitale: produce continuamente narrazioni, ma non sa nemmeno se ci sono spettatori, se c’è qualcuno, là fuori, che guarda ciò che lui comunque continua a fare, «per la bellezza del gesto». Holy Motors, risveglio di Carax a 13 anni da Pola X, è un film sulla fine del cinema analogico, sulla pellicola che sta cedendo le proprie visioni alla vita pixelata, nostalgia di tempi in cui le macchine da presa erano grandi come uomini, sacri motori. Non occhi invisibili, non sguardi così minuscoli da far scomparire il confine tra scena e retroscena (l’autenticità di ogni evento, qui, è un enigma, una domanda), da trasformare il teatro quotidiano in panopticon e l’uomo in sempiterno spettatore, mesto e inerme per l’eccesso di visioni. Carax ha sempre cercato, in un cinema derivativo e caricaturale, la tragedia (anche autobiografica) dell’uomo: Holy Motors, tra rovine di generi e serie parodie, è la storia di un sentimento, di ciò che di umano rimane incollato alle maschere. Coinvolge lo spettatore in storie che non hanno premesse e non fanno promesse, in finzioni conclamate che bruciano in un attimo, e a cui comunque crediamo, con cui comunque soffriamo, come se le seguissimo da sempre. È questo il paradosso struggente di un film testamentario. Raccontare della morte del cinema. E magnificarlo.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 23 del 2013

Autore: Giulio Sangiorgio

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