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L'occhio caldo del cielo

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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La recensione su L'occhio caldo del cielo

di scapigliato
8 stelle

Robert Aldrich, uno dei registi più anarchici ed indipendenti dell’America che fu, torna al western dopo sette anni di altrettanti successi. Qui trascrive in immagini il celebralismo psicoanalitico dello sceneggiattore Dalton Trumbo (no, avete capito? Dalton Trumbo...). E lo fa con la sua mano pesante, forte, radicale. Da un lato il cavaliere nero, istintivo, folle, inquieto, romantico, violento, autodistruttivo. Dall’altro il cavaliere bianco, integro, morale, bello, statuario, irreprensibile. Da un lato Kirk Douglas, dall’altro Rock Hudson. Due personaggi speculari che rappresentano la matrice letteraria della storia: l’uomo e il suo opposto, il Bene e il Male, il Bianco e il Nero, il conscio e l’incoscio. Nell’eterna lotta tra l’uomo e se stesso le due rappresentazioni delle proprie opposizioni si sfidano sotto l’occhio caldo del cielo, in un deserto arido e inospitale, avvolti dalla tempesta di sabbia e investiti da una mandria di vacche. Il grande regista quindi sa come tradurre cinematograficamente contenuti così alti, letterari, esistenziali e psicoanalitici.
Kirk Douglas scappa da Rock Hudson. Il film si apre proprio su un gioco di paralleli dove i due a cavallo attraversano, prima l’uno e poi l’altro, le stesse distese di sabbia, gli stessi sentieri, gli stessi luoghi. A distinguerli i loro colori: il nero per Douglas e il bianco-in-realtà-beige per Hudson. Ma poi i due convergono in un unico scopo, quello di portare nel Texas la mandria di un gigantesco Joseph Cotten, che fin che vive ruba la scena agli altri due mostri sacri del cinema hollywoodiano. Ma in questo scopo se ne nascondono molti altri, come adulare la bella moglie, Dorothy Malone, oppure curare il proprio rivale perchè non faccia mosse false, oppure rubare il cuore alla giovane figlia Missy. Tutto contrappuntato da incidenti di percorso come la tempesta di sabbia, la morte di Cotten, gli indiani, i banditi (tra cui Jack Elam e Neville Brand). Una complessità, quindi, quella della narrazione, che fa da specchio al legame oppositivo tra i personaggi di Douglas e di Hudson, dei quali quello di Douglas è il migliore, il più sfaccettato, il più artistico, il più autoriale. L’altro è solo un bamboccio, falso, pedante. Uno di quegli uomini tutti d’un pezzo di cui non si sa mai che farsene. Nella vita come nel cinema. E il cinema a mano armata di Robert Aldrich non ha bisogno di questi uomini, non ha bisogno di eroi, o di personaggi esemplari. Piuttosto ricerca le crepature di un’esistenza speciale, un’esistenza che va da un’altra parte e non rincorre la massa, e si distingue. Ecco che quindi il nostro cavaliere nero di Douglas è anche capace di amare la propria figlia, di innamorarsi così tanto della morte da cercarla a tutti i costi, sia ritrovando l’amore in una donna che non c’è più, sia suicidandosi diabolicamente sul finale del film. Un film, per tanto, che non può e non deve essere lasciato nel cassetto delle opere minori.

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