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The Photograph

Regia di Krzysztof Kieslowski vedi scheda film

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La recensione su The Photograph

di OGM
8 stelle

Il percorso cinematografico di Krzysztof Kieslowski inizia cercando. E l’indagine è destinata a farsi sempre più vaga nei contorni: rispetto ai primi cortometraggi, ambientati in luoghi istituzionali,  come uffici pubblici e locali aziendali, in questo documentario, girato per la televisione polacca, lo sguardo si è spostato su un orizzonte ben più ampio, che abbraccia un’intera città e  una fetta di storia. La fonte ispiratrice è uno spunto quanto mai incerto: una fotografia, scattata da un soldato polacco nel settembre del 1944, subito dopo la liberazione dall’occupazione tedesca. L’immagine ritrae due ragazzini sconosciuti, nel cortile di una casa popolare del quartiere Praga. Kieslowski vuole scoprire chi sono, incontrarli, farsi raccontare i loro ricordi di quel giorno, e la loro vita degli ultimi anni. A questo scopo va in mezzo alla gente, interroga gli abitanti di quel palazzo, raccoglie vaghi indizi con i quali si rivolge all’anagrafe, recupera indirizzi, ricostruisce spostamenti, e alla fine li trova:  sono i fratelli Tadeusz e Jerzy Janczewski, che allora avevano, rispettivamente, cinque e otto anni e, all’epoca del film, nel 1968, sono padri di famiglia e lavorano entrambi come autisti. Il tuffo nella realtà, per quanto essa sia banale, è il  turbine da cui nasce la riflessione sulla vita: è il movimento che solleva i dubbi e rimescola le idee,  e, prima di tutto, mette a nudo la verità dell’uomo. La prospettiva punta dal basso verso l’alto, parte dal livello in cui si affolla la cosiddetta gente comune per capire da dove nascano il dolore, la gioia, l’amore. Kieslowski chiede a Tadeusz dove e quando abbia conosciuto la sua attuale moglie; e domanda alla figlia di Jerzy di descriverle, con parole sue, l’aspetto di suo padre. Vuole anche sapere come fosse la guerra, vista da quei due bambini, e cosa significasse, per loro, quel pomeriggio di festa, in cui tutti scendevano in strada a cantare, gridare, sventolare bandiere. Tadeusz e Jerzy non potevano essere allegri, perché la loro madre, gravemente ferita, stava morendo. Il perimetro di quel cortile è la zona d’ombra in cui, al di sotto dei clamori dei grandi avvenimenti storici, si annidano i piccoli frutti del male di vivere; i recessi del tempo in cui maturano le singole esistenze, e si preparano i piccoli cambiamenti che definiscono i destini personali,  felici o infelici in maniera trasversale alle vittorie e alle sconfitte dei popoli. Per portare sullo schermo la parte più segreta e vulnerabile dell’umanità, occorre far risuonare la sua voce: non bisogna raccontarla, bensì metterla in condizione di raccontarsi da sé, col proprio linguaggio, l’unico in grado di rappresentare gli eventi attraverso il drammatico filtro dell’esperienza diretta. Con questo Zdjecie, Kieslowski crea un esempio di “tv verità” che è basato sulla ricerca sul campo e sull’intervista, eppure è estraneo sia allo spirito del reality, sia al giornalismo di inchiesta: del primo non condivide il gusto per lo spettacolo, dal secondo lo distingue invece  l’imparzialità, l’assenza di una tesi da dimostrare. Non ci sono colpi di scena da inseguire, prove accusatorie da raccogliere, mancano la sensazione e la polemica. C’è, in definitiva, solo un’onesta curiosità, un desiderio innocente di farsi affascinare, e magari sconvolgere, da quello che, nelle vite degli altri, non fa notizia né romanzo, perché si stampa, in maniera indelebile, soltanto nelle invisibili pagine del cuore.

 

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