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Notorious - L'amante perduta

Regia di Alfred Hitchcock vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Notorious - L'amante perduta

di ed wood
9 stelle

“Notorious” è uno dei super-classici di Sir Alfred, forse un po’ caduto nel dimenticatoio. Paga il fatto di restare escluso da quella che unanimemente viene considerata la golden age del cinema hitchcockiano, che va all’incirca dalla “Finestra sul cortile” (1954) agli “Uccelli” (1963). Se in quella decade, in effetti, il Maestro superò se stesso, elevando il gioco della suspense a riflessione/metafora esistenziale, non vanno dimenticate le perle che l’inglese regalò negli anni 40, il decennio del noir. “L’ombra del dubbio” e “Il sospetto”, ad esempio, sono due geniali variazioni sul genere, dove l’allusione prende il posto dell’evidenza, spianando la strada ad una concezione pienamente moderna del cinema del brivido. “Notorious” è forse il suo risultato più paradigmatico di quella fase, per la capacità di impreziosire le convenzioni di un genere con sguardi che presagivano diversi frangenti del futuro cinema, suo e altrui. “Notorious” è il modello di buona parte del thriller spionistico fino ai giorni nostri. C’è una coppia fascinosa, in preda ad una irresistibile attrazione reciproca, impedita da forze repressive come la ragion di Stato, il senso del dovere, l’etica professionale, la coscienza politica, la paura di una ritorsione istituzionale. C’è tutto un potenziale teorema erotico in questo canovaccio: se tanti mediocri registi avrebbero poi saputo cogliervi solo banale pathos, Hitchcock invece faceva intuire, fra le pieghe della convenzione drammaturgica ed estetica, un abisso di ossessioni e sottili perversioni. Ad esempio, il “cattivo” Sebastian, ricco e potente nazista, non è piuttosto un pover’uomo fragile, angosciato e soprattutto succube di una madre gelosa e possessiva? Non è forse il prototipo di Norman Bates? Non è vittima, prima che di una macchinazione, del proprio frustrato desiderio sessuale, di una vertigine mentale che gli impedisce di scorgere nell’amante la spia che realmente è? E il poliziotto “buono”, invece, il leale servitore della causa americana, è veramente eroico nel gesto con cui salva la donna? Non era piuttosto un rischio calcolato, una situazione “win-win”? E quanto è cinico e spietato nell’abbandonare il povero Sebastian alle grinfie dei suoi soci assassini? Si prova quasi pena per il destino che attende il “cattivo” ingenuo e tradito, così come il “buono” non passa certo per virtuoso, bensì per opportunista: potrebbe quasi essere letta come un’ardita metafora dell’imminente imperialismo americano, che ha scalzato i modi apertamente aberranti delle dittature europee sostituendoli con una facciata di moralismo, volta a nascondere manovre prive di scrupoli. In tutto questo, la donna si configura come una presenza tormentata, contesa fra due poli, fra una realtà inafferrabile e le fantasie degli uomini: come un prototipo della Madeleine di “Vertigo”, Elena è una specie di entità etero-determinata ed etero-diretta. Prestata ai giochi di potere e alla libidine degli uomini, resta sospesa fra in un limbo fra un passato sospetto e un futuro incerto, tragicamente impossibilitata ad “essere” pienamente se stessa. Sir Alfred gira con la consueta bilancia di tempi ed umori, riscattando qualche forzatura nel copione che impedisce forse al film di stagliarsi fra i migliori in assoluto del regista. In più, si concede alcune scene romantiche piuttosto torride per l’epoca, con piani ravvicinati delle labbra di Cary Grant e di Ingrid Bergman, takes prolungati e un senso di passione dirompente ma minacciata dall’esterno, di un coito impossibile più che interrotto. Come se non bastasse, c’è spazio anche per geniali e funzionali auto-citazioni, nonché parentesi allucinatorie: verso l’inizio si vede il poliziotto-amante portare un bicchiere con una bevanda chiara ad Elena, per alleviare i postumi di una sbornia. Hitch dà risalto al bicchiere nell’inquadratura, come se contenesse un qualche veleno (richiamando sia la celebre scena del “Sospetto”, di qualche anno prima, sia soprattutto la parte finale dello stesso “Notorious”, in cui viene dato il medesimo risalto alle tazzine di caffè avvelenato offerte dalla suocera). Non solo: dopo che Elena si risveglia col bicchiere davanti al suo naso, vediamo una sua soggettiva di Cary Grant a testa in giù, tanto per aumentare il senso di incertezza nella percezione della realtà e della moralità dei personaggi. Servito da un trio di interpreti di classe assoluta (due terzi di “Casablanca”, con cui ovviamente questo film ha parecchio da spartire, come atmosfere e risvolti tematici, molto meno come tono e tocco) e concluso da un finale dove la suspense è condotta sui binario della pura, irreale dilatazione temporale (come in Eisenstein, e non a caso c’è di mezzo anche qui una scalinata!), “Notorious” resta un testo filmico di grande fascino, raffinatezza e profondità.

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