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Unfair World

Regia di Filippos Tsitos vedi scheda film

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La recensione su Unfair World

di OGM
8 stelle

Cosa rimane quando la crisi si è presa tutto. La solitudine, il silenzio, uno sguardo preso nel vuoto. L’oblio di se stessi e l’impossibilità di essere onesti. Un ambiente anonimo e spento, schiacciato dalla necessità, vittima del livellamento che annulla tutte le differenze: quelle che, in condizioni normali, strutturano la società garantendone il funzionamento. Nella Grecia dei giorni nostri, ormai, è saltato anche il dislivello che normalmente separa un poliziotto da un delinquente. L’agente Sotiris accantona, lanciandole sopra l’armadio, le pratiche relative a tutte le denunce che arrivano sulla sua scrivania. Interroga i presunti ladri, incendiari, sfruttatori della prostituzione, e poi li manda a casa. Nelle loro verità, ma anche nelle loro menzogne, riconosce infatti il compassionevole volto della disperazione, di fronte al quale bene e male divengono concetti relativi. Lui stesso, d’altronde, è ormai passato dall’altra parte. Però nessuno se ne è accorto, e comunque la cosa poco mporta. La realtà è diventata così impersonale da essere insensibile ad ogni cambiamento. È un paesaggio immobile che accoglie imperturbabile ogni paradosso. Non reagisce, perché la volontà ha abbandonato anche il logos che fa da motore alla vita del cosmo. Il quadro è fisso, impermeabile alle paure, alle remore, ai sogni. La quarantenne Dora, per sopravvivere, si inventa mille mestieri, dalla escort alla donna delle pulizie, passando dall’uno all’altro come se niente fosse, perché ormai tutto fa brodo. Delle sue azioni non risponde più nemmeno a se stessa: è un automa nelle mani del bisogno, un po’ come lo è Sotiris nei confronti dell’istinto ribelle che gli cova nell’anima, e che nasce dalla rabbia per un mondo tanto ingiusto. Quando l’indignazione è troppa, il dito finisce per scivolare da solo sul grilletto. In un attimo si diventa assassini. Una metamorfosi impercettibile, che non scuote l’immobilità di un universo in cui i contrasti sono ridotti a chiazze di colore, dissonanti e accese, però fredde e prive di energia. L’utopia è un luogo immaginario plasmato nel polistirolo. Il denaro è un mito che passa meccanicamente di mano, senza alcuna speranza di regalare la felicità. I significati si sono persi, una volta che le emozioni sono stinte, e le parole restano soltanto per raccontare ciò che è successo, poiché nulla esiste più, a parte i fatti che accadono e non si possono spiegare. Ci si confida, ma non ci si consola. Ci si mette in cerca l’uno dell’altro, ma poi ci si incontra solo per condividere un equivoco. Persino il do ut des è morto, dato che anche il dono è un gesto reversibile, e magari è un semplice frutto del caso. Negli scenari inerti, eppure  animati da surreali sproporzioni, sembra di rivedere lo stridente disincanto di You, the  Living (2007): si direbbe che ritorni quella allucinazione generale che Roy Andersson, nel suo piccolo capolavoro, aveva saputo rendere più che mai concreta, amalgamandola col peso del dolore. Il cinema nordico e quello levantino respirano, ormai, la stessa aria rarefatta, attraverso la quale una versione esangue dell’assurdo si muove a passi lenti; intanto l’espressività decade in un’atarassia che salva, facendo risparmiare il fiato. In quell’atmosfera ridotta al lumicino non si può sentire il rumore prodotto dai nostri mille errori: e così si tace, o si discorre per non essere ascoltati, visto che comunque è impossibile sapere. C’è un’altra voce che parla al posto nostro: ma, questa volta, non è il suono della musica.

 

Unfair World è il terzo lungometraggio di Filippos Tsitos,  più noto come autore di corti e di serie televisive.  Questa sua ultima opera ha concorso per la Grecia al Premio Oscar 2013 per il migliore film straniero.

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