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Doppio gioco

Regia di James Marsh vedi scheda film

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La recensione su Doppio gioco

di OGM
8 stelle

Ballare nell’ombra. Un eufemismo per indicare il doppiogioco, il tradimento della causa e della propria famiglia. Colette è una giovane terrorista dell’IRA, come lo sono i suoi fratelli Connor e specialmente Gerry, che, nel movimento, è uno dei capi più spietati ed irriducibili. Colette ha già partecipato ad un omicidio, ma non ha premuto lei il grilletto. Non se l’è mai sentita di uccidere. Soprattutto ha sempre ripudiato la violenza contro gli innocenti, della quale, quando era ancora una bambina, era stato vittima un altro suo fratello, colpito per strada da un proiettile, mentre andava a comprarsi dei dolciumi. Colette è un fascio di fremente ambiguità. Nella sua apparente fragilità, che, in realtà, è la superficie di una profonda solidità morale, sembra soffrire in entrambi i ruoli, quello della combattente e quello della madre che cerca una via d’uscita da quel mondo imbrattato di sangue. Mac, l’agente dei servizi segreti britannici a cui la donna passa le informazioni, non può restare indifferente di fronte a quell’immagine sfocata di struggente disperazione, tenuta insieme da una forza d’animo che diffonde un alone di infinita tenerezza. La sua femminilità pulsa di angoscia per un futuro tenuto in ostaggio dall’odio, mentre  si ritrova a percorrere, come un funambolo, il sottilissimo confine che separa la vita dalla morte. Colette è un’icona spezzata, costretta ad essere due persone in un solo corpo, mentre forse, dentro di sé, nell’anima lacerata da quella atroce contraddizione, ha la sensazione di essere nessuno. La trama di una spy story soffusa e nebbiosa frena la sua corsa verso la tragedia, restando impigliata nella delicata incertezza di quella messa in scena, così difficile e pericolosa, variamente intessuta di dilemmi coltivati nel silenzio. In questa vicenda, il dubbio è un dramma che rimane inespresso a parole, mentre si manifesta nell’azione, nella cangiante complessità di una partita in cui basta una sfumatura, fugacemente colta in uno sguardo, a insinuare il sospetto e scatenare la vendetta. La figura di Colette, isolata e sfuggente, vive sola con la sua coscienza, la sua paura ed il suo destino avverso, in mezzo ad un’umanità vorace e primitiva, divisa con l’accetta in vittime e carnefici, in amici e nemici, perché essa non conosce altro modo di concepire la lotta. Un assolutismo a cui Colette risponde con l’indeterminatezza di chi, per sopravvivere, non ha altra scelta che fare cose sbagliate confidando che, comunque, alla fine dei conti, il bene riesca a trionfare. È arduo praticare una resistenza pacifica e sotterranea quando ci si trova nel cuore del crimine, e magari direttamente coinvolti nei suoi piani assassini.  Se, per difendere quel segreto, la voce si deve ridurre ad un sussurro, si rischia di apparire remissivi e deboli, anche quando il cuore batte al ritmo potente e regolare  della fede in un domani migliore. Colette si tira indietro di nascosto, mentre finge di stare dentro,  perché soltanto così può sperare di sottrarre un lembo di terra vergine al dominio dell’orrore.  E intanto danza, davvero, con grazia leggera, aggirando trappole micidiali, ma senza riuscire ad eludere i fatali tranelli dell’amore, e i crudeli sacrifici che esso richiede. Il suo passo scalfisce la durezza con un timido cenno di poesia. È lo shadow dancer che si esibisce, fuori dalla vista del pubblico, ai lati del palco, in attesa che la musica cessi di essergli ostile, e accompagni, finalmente, l’ansimante armonia del suo palpito accorato.  

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