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Doppio gioco

Regia di James Marsh vedi scheda film

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La recensione su Doppio gioco

di M Valdemar
8 stelle

C’è un indefinito greve senso di morte che ammanta, sin dal doloroso incipit, Doppio gioco.
Film che - ben lungi dal rincorrere riconoscibilissimi moderni modelli dal montaggio ipercinetico e dalla foga action - costituisce una sorta di immersione mirata e puntuale nelle oscure ere dominate dalle bellicose contrapposizioni IRA vs. istituzioni del Regno Unito.
Una danza spettrale nelle ombre oblique generate dall’impossibilità di abbandonare avamposti lugubri e percorsi prestabiliti, come costretti in una lunga marcia funebre ad osservare pezzi di vita cadere l’uno dopo l’altro e rendersi conto, troppo tardi, dell’insensatezza del tutto.
Essere bambini - o madri, o sorelle, o semplicemente “persone” - a Belfast in quegli anni: non un bel mo(n)do in cui respirare ed esistere, proprio no. Un po’ come avere un tatuaggio marchiato a fuoco vivo nelle intimità: inutile opporsi. Non c’è scelta; l’unica possibile è di non scegliere, affidandosi al corso naturalmente deviato degli eventi.
Guardate gli occhi di Collette: ora svuotati ora carichi di sentimenti contrastanti ora enigmatici; e sempre avvolti in quell’angosciante velo di rassegnazione che sembra dispiegarsi e creare una plumbea barriera di protezione/distacco attorno alla stessa figura. Uno zombie, in un certo qual modo, con l’unico legame vero e terreno ad ancorarla disperatamente ad un senso “banale”, comune, di vita: il figlio, anch’egli probabilmente predestinato (all’infausto divenir membro/soldato/ostaggio).
Attorno a lei, presi come in un disegno animato i cui loop generano la stessa immutabile istantanea, si distinguono la famiglia - segnata oltre che dalla stasi ambientale anche dalla tragedia di una ventina d’anni addietro -, i capibranco - che hanno connaturata indole ambigua e paranoide - e i rappresentanti delle forze di polizia, i “servizi”. Un recinto opprimente dal quale è in pratica impossibile scappare: man mano che si intravede un’uscita, avvicinandosi ad essa si scopre ch’era solo una beffarda illusione, uno spiraglio di rancido gusto su mal riposte speranze.
Le unità così messe in moto circoscrivono quello che è l’elemento centrale e accentrante, scatenante, ossia Collette, dalle cui parabole casuali a causali che hanno origine comune nella pesantissima situazione del tempo, discendono destini ed effetti. Sorte a cui non si sottrae neppure l’altra faccia della medaglia, quella dei difensori della legalità.
Ma la componente spy, anziché fagocitare e banalizzare la struttura filmica in un tediosissimo ansiogeno involucro thrilling/muscolare, concorre alla formazione di una descrizione analitica - tenendo conto della natura “sintetica” di quella che è un’opera cinematografica - di un sistema storico/antropologico/sociologico tutt’altro che chiuso e risolto.
Merito dell’armonia in cui spaziano i diversi fattori va ascritto al regista, James Marsh, che dosa con senso compiuto e misura ritmo e tensione, drammaticità ed atmosfere, accompagnando la pellicola in uno stato di foschia emozionale che cattura lo sguardo senza violentarlo o chiedergli di esaltarsi con sforzi evacuativi: un’”educazione” alla visione affatto alla moda, che ricorda per certi versi un grande film (ancora britannico) come La talpa di Tomas Alfredson.
Su tutto “pesa” poi la presenza semplice eppure forte di Andrea Riseborough (Collette) che, affiancata da facce giuste, irlandesi fino al midollo, offre un’interpretazione intensissima e ispirata.

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