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7 psicopatici

Regia di Martin McDonagh vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su 7 psicopatici

di M Valdemar
8 stelle

Frammenti schizzati di vita balorda dentro e fuori Hollywoodlandia.
La penna pronta a sput(t)a(na)re storie, le orecchie drizzate a captare storie assurde e sanguinolente (per poi farle proprie), la fantasia in perenne stato di eccitata depressione - o depressa eccitazione - in frenetica attesa di esplodere colpi risolutivi. E vincenti.
E' proprio dura essere uno sceneggiatore …
C'è già il titolo, c’è una (confusa) idea filosofica di fondo, ci sono i personaggi. Anzi no. Forse giusto uno, il primo psicopatico - volto coperto, camminata felpata, l’aria di chi passa per caso - che spunta dal nulla e fa fuori due mafiosetti senza tanti convenevoli, disturbandosi poi a lanciare sui corpi due jack di quadri.
Realtà, finzione o cosa? O cosa. Cosa?
Cose che capitano.
Strutture, dotate di ogni comfort e convenzioni (narrative, produttive, estetiche), che capitolano.
Tizi, che come cercano di muoversi, inesorabilmente capitombolano (nel caos, nell’oceano infestato di squali che mangiano altri squali, nel perverso gioco di mirarsi affogare).
E sì, forse c’è qualche problema. Convivere con la propria natura, intanto (di scrittore, di irlandese, di alcolizzato: il destino sembra segnato); senza contare l’amico, attore fallito che s’arrabatta come fotticani, e pare pure un pochino disturbato.
Le pagine continuano però a essere bianche - la penna in una mano e la bottiglia nell’altra -; con la fidanzata che compatisce, non capisce ed infine sparisce. Inevitabile. Ciò che non può essere evitato è il progressivo affollarsi di quelle facce da galera (o da balera) che sembrano scolpite con la plastilina dei fuori di testa e provenire dalle galleria mnemonica di ogni cinefilo amante dei generi, dei degenerati e dell’ingegno applicato all’artigianalità.
Dannazione, la storia non procede. I guai sì: si moltiplicano, si contorcono, si prendono gioco. Soprattutto, copulano furiosamente mischiando fetidi liquami del fottuto presente con i folli residui organici di passati avvolti in tenebre ed efferatezze. Nel mentre, i neuroni ricettivi della creatività (quelli sopravvissuti alla bruciante iperattività alcolica e autocompatente) restano alla finestra, pronti a sfruttare la situazione.
Che va facendosi tremendamente complicata, drammatica. Se solo non fosse stato per quel cane, e per quell’amico così fuori di testa, e per l’incapacità di scrivere qualcosa di decente. E per … (le infinite variazioni nell’invariabile equazione di celluloide non possono che portare allo stesso risultato: il finale). Un viaggio allucinante (il peyote c’entra poco) con compagni uno più fuori di testa dell’altro, inseguiti da un mafioso tanto crudele e tanto (troppo) attaccato all’amato cagnetto (meno alla fidanzata), e avente come meta ultima il deserto.
Cioè la resa dei conti.
Immaginarsela, pensarla, vederla proiettata tra sogni e desideri da avverarsi. Ma c’è sempre qualcosa che va storto, qualcuno che non rispetta i ruoli, quello più forte che fa la voce grossa e vuole decidere lui (secondo le illogiche logiche imperanti - commerciali, di target, distributive, di accondiscendenza a concetti imposti quali moralità, normalità, bla bla bla).
No, non mi avrete: “è il mio finale”!

E' il suo finale, e il suo film: Martin McDonagh si circonda di una formazione all star ben sapendo che non può sbagliare. E non sbaglia, fortunatamente. Fluttuando vorticosamente tra le onde del serio, del faceto, dello strafatto e del burlesco, tocca luoghi - fisici e dell’anima (cinematografica) - (psico)analizzandoli come uno studioso morboso di fenomeni e contaminandoli con un linguaggio che si smarca dalle convenzioni e dalla convenzionale e rigorosa subalternità ai dogmi narrativi divenendo esso stesso protagonista.
Il continuo audace andirivieni tra segmenti (sur)reali e fittizi - aventi matrice comune nella scrittura-personaggio - ha funzione metatestuale e indagatrice/rivelatoria di sche(r)mi e norme dell’elefantiaco agglomerato cinema.
La rappresentazione, alimentata e contraddistinta da battute fulminanti, gorgoglii di sangue, momenti drammatici, riferimenti e citazioni (da Violent Cop di Kitano a Noam Chomsky), passaggi poetici, schizzi di psicopatia, in­serti onirici (anche se sono “per finocchi”), risponde a un’estetica sfrontata, volutamente sopra le righe (e non certo priva di rischi), che si diletta nell’arte dello sbeffeggio e punta a provocare immediatamente una reazione ("The first cut is the deepest" canta magnifica e soave P.P. Arnold).
Attorniato, come detto, da un manipolo sceltissimo di teste e facce grandiose e memorabili (impossibile descriverli tutti, tra l’impareggiabile Tom Waits con in braccio un coniglio bianco che accarezza sempre, l’immenso Christopher Walken mistico e inquietante, lo “specialista” Woody Harrelson sempre divertentissimo e più che a suo agio in una parte da squilibrato, e lo psicopatico N. 1, Sam Rockwell, semplicemente fantastico), McDonagh evita il pericolo farsa e crea un componimento credibile, per quanto folle, e sicuramente personale, autentico. Tra l’altro avrà pur “suggerito” qualcosa di suo al protagonista, Marty, interpretato da Colin Farrell (bravo pure lui, si vede che cotanta compagnia lo ha stimolato).
In conclusione, Seven Psychopaths è sì un progetto ambizioso che si presta a più livelli di lettura, e certo non è di facilissima collocazione e comprensione (chi si aspetta un action-pulp puro rimarrà deluso), però possiede una carica vitale, a tratti alquanto originale, che lo rende irresistibile.










 

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