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Educazione siberiana

Regia di Gabriele Salvatores vedi scheda film

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La recensione su Educazione siberiana

di scapigliato
10 stelle

“C’è qualcosa nei ricordi dell’adolescenza che disegna una traccia imperfetta nell’anima. Sta lì e non si muove più, per tutto il resto della vita. Ci sono odori, profumi che sotterri per trenta quarant’anni e che improvvisamente ti sorprendono, regalandoti un contatto imprevisto. Una cosa che abbraccia due vite distanti e per un istante le rende un’unica vita. Penso a quella fila di bicilette lungo la discesa per il mare e sento come una grinza, nell’anima. Quelli eravamo noi, e le nostre vite erano piene di una linfa luminosa che disegnava di fosforo le scie. Eravamo noi, in quel momento esatto, e non saremmo stati più gli stessi. Un istate più tardi e un anno e una vita. Chissà cosa saremmo diventati, se ci saremmo più incontrati o magari avremmo fatto a meno di vederci, felici e distanti”. (Francesco Carofiglio, L’estate del cane nero, Marsilio, 2008 Venezia).
L’adolescenza come romanzo rappresentativo della vita. Adolescenza come dimensione esistenziale della vita. Adolescenza come modulo narrativo per la descrizione vera e sanguigna degli impulsi vitali di ogni essere umano. Adolescenza come altrove e altrieri mitico in cui ritrovare se stessi o re-immaginare dei nuovi se stessi. In Educazione siberiana l’epos adolescente è chiaro, preciso, spiazzante nella sua bellezza istintiva, segnato dai passi pesanti della tragedia – non a torto c’è chi parla di epica leoniana.
Salvatores, a sua agio tra bambini o adolescenti o giovani, riesce nuovamente a descrivere, tra immagini e caratteri, la parabola leggendaria di un mondo emozionale che trova la sua concrezione nell’atto del racconto. Nei moduli narrativi prescelti, depistati dallo sfasamento temporale, così come nel mitologema vecchio tanto quanto il mondo, ma immortale e pieno di tanti non detti, come lo è il racconto di due amici cresciuti insieme che si amano incondizionatamente ma che poi il destino mette uno contro l’altro, rappresentanti entrambi di due mondi diametralmente opposti, si respira la grandezza della storia di tutte le storie.
Kolyma e Gagarin, amici del cuore fin dall’infanzia, il primo moro, timido, introverso, quasi inadeguato, il secondo biondo, spavaldo, dirompente, con una chiara attrazione per tutto ciò che è proibito, sono lo Yin e lo Yang della rappresentazione massima e archetipale del Doppelgänger. Il primo passivo, il secondo attivo, formano la copia spuria dell’intimità adolescente che ci trasciniamo dentro per tutta la vita. Nella loro educazione criminale, nelle prime risse e nei primi duri colpi della vita – il riformatorio per Gagarin – passando poi per l’adolescenza turbolenta fatta di amori impossibili, di lotte territoriali, coltelli a serramanico, giornate ormonali al tiepido sole in riva al fiume, la tragedia per la scomparsa di un amico fraterno, fino alla maturità della giovinezza, alle scelte di campo, la galera, la propria storia tatuata sul proprio corpo, infine il duello finale, la resa dei conti, il faccia a faccia duro e inevitabile che chiude il cerchio e ne apre un altro, più prosaico, più sobrio, più accettato e condiviso dalla società degli adulti, in questa loro parabola di vita, i due caratteri, i due Yin e Yang, sono uno l’ombra dell’altro, uno il non detto dell’altro, e sintetizzano nei simboli del racconto tutto il magma indefinito di un’età straordinaria che continua in sotterranea lungo il resto della nostra vita.
Il regista, se non è perfetto, lo è quasi, e gli ci vuole poco per rendere palpabili le tensioni emotive dei sue ragazzi. Innanzitutto, benché tratto dal libro di Lilin, nella scelta dell’ambientazione si nota la volontà d creare uno scenario sterile, saturo di colori freddi e di forme minimaliste, scaldato qua e là dal barocchismo di una filosofia di vita criminale iperbolizzata attraverso tatuaggi, icone e interni rurali. Scenario simbolico che abbraccia così le vicende dei personaggi dotandole, per via della proverbiale inospitalità della taiga, delle sue forti referenze animali – qui il lupo, altrove la tigre, come nell’Amur più profondo – e dell’apparente congenito distacco emotivo della sua gente, di una miticità arcaica, bucolica, fatta di guerrieri e cacciatori, di tatuatori e rituali antichi, che diventano in ultimo i simboli di un’età che parla più col corpo che con le parole.
Da questo punto di vista anche la perfetta fisicità dell’attore lituano Arnas Fedaravicius serve a veicolare ad un livello di interpretazione superiore e più subliminale il linguaggio del corpo adolescente, il suo atletismo emotivo, la sua istintualità animale, infine la sua forte, erotica, secretica presenza fisica in questo mondo. Reale o fittizio, tangibile o solo narrato, sempre mondo è, con il suo orizzonte e le sue strade, le sue scelte e i suoi dubbi, incarnati e rappresentati dalla forte componente carnasciale del corpo attoriale, a maggior ragione se il corpo in questione è quello acerbo ma irrimediabilmente seduttivo dell’adolescente.
Il contraltare biologico, narrativo e filosofico di Kolyma è il nonno Kuzya di John Malkovich. Il vecchio nonno paterno, capobanda, capofamiglia e capobranco della comunità Urka siberiana, scontra con il giovane corpo atletico del nipote, inquieto e tenebroso, il proprio corpo anziano sfatto, segnato dal tempo, dalle lotte e dai tatuaggi. Nella scena della sauna – l’unica in cui Arnas Fedaravicius appare quasi totalmente nudo oltre alla sequenza rilevatrice in riva al fiume – gli anziani si contrappongono come un parlamento corporale al giovane iniziato. I corpi nudi, appartenenti a gruppi sociali diversi, si confrontano e in seguito si integrano attraverso la ritualità dell’intimità condivisa. Quasi come sul modello antico greco, gli adulti passano il proprio seme guerriero al più giovane durante un rito che ha sempre e comunque una componente sessuale, anche se solamente erotica. Biologicamente il nonno Kuzya di John Malkovich, aiutato dalle fattezze dell’attore che lo incarna con consapevole ambiguità luciferina e lupesca, si interpone tra il giovane nipote e il mondo là fuori, da un lato aiutandolo e comprendendone gli slanci emotivi e ribelli, dall’altro ostacolandone la libertà di azione, o per lo meno sanzionandone il disaccordo. Così, anche narrativamente e più filosoficamente, il personaggio dell’anziano patriarca assume la gravità del demiurgo che in ultima analisi innesca la conflittualità maggiore dell’intera vicenda, quella tra i due amici fraterni.
Impossibile, a riguardo, non menzionare un’altra corporalità di indubbio valore interpretativo come il personaggio di Xenya a cui da volto la bellissima Eleanor Tomlinson. Impossibile non innamorarsi di Xeya quando salta giù dal treno. E il giovane Kolyma lo sa bene. Purtroppo la bella Xenya è anche una “voluta da dio”, edulcorazione di “pazza”, e questo se da un lato non aiuta il protagonista nella sua tentata pacificazione con il mondo, dall’altro innesca nel character la forza e la determinazione con cui agire e comprendere il suo ruolo nel mondo.
Ancora una volta è il corpo, con il suo linguaggio, a determinare un carattere, a completare un’idea e a rappresentare ciò che siamo nell’intimità delle trame finzionali. Accade così che la sensualità e la disinibizione del corpo “pazzo” della conturbante felina Xenya serva a deflagrare le barriere protettive dentro le quali si serra il protagonista canide Kolyma, prima di prendere la strada del bandito d’onore sul modello paterno. Ruolo sociale che sarà poi l’esatto opposto di quello dell’amico di una vita, Gagarin, che nella classe di rapporto che intercorre tra i due è incubus, mentre Kolyma è succubus, almeno fino a un certo punto della storia – o forse lo sarà sempre? Tra i due c’è tutta la tensione adolescenziale di esclusione/inclusione, invidia e gelosia, tacito omoerotismo che fa dell’uno l’oggetto desiderato e/o invidiato dell’altro. Ne è una conferma rilevatrice la scena del pomeriggio in barca in riva al fiume quando Gagarin, dopo che l’amico Kolyma si butta in acqua per salvare Xenya, vi si getta anche lui fingendo di non saper nuotare e minacciando così il suicidio. Non solo vuole strappare l’attenzione del pubblico rivierasco che ha occhi solo per Kolyma “il salvatore”, ma vuole soprattutto vedere la reazione dell’amico, se fosse corso a salvarlo oppure no. No. Da qui quindi, si genera all’interno del sistema dei personaggi lo scontro e la tensione tutta narrativa tra Kolyma, Xenya e Gagarin che porterà  quest’ultimo a stuprare la ragazza, e a chiedere implicitamente all’amico attraverso questo sconsiderato, inutile ed estremo gesto barbarico: vieni a cercarmi e facciamola finita.
Se aggiungiamo il fatto che il codice dei criminali della comunità Urka è quello di rispettare i poveri, i malati e i bisognosi, di rifiutare la droga e la prostituzione come business, di lasciare fuori casa l’onta del denaro rubato, e di prendersela anche a morte solo con polizia, banchieri e governanti, notiamo come è duro a morire il mito del bandito onesto, seppur maledetto dalla propria condotta antisociale, e avvertiamo com’è ancora palpitante civilmente e simbolicamente il cinema di Gabriele Salvatores.

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