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Padroni di casa

Regia di Edoardo Gabbriellini vedi scheda film

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La recensione su Padroni di casa

di scapigliato
10 stelle

Padroni di casa ovvero “uomini e lupi”. Il film si apre con una precisa scelta narrativa e tematica. L’incontro/scontro tra un ragazzino e un lupo nell’intrico della selva appenninica. Il ragazzo ha un fucile e per il lupo c’è poco da fare. Narrativamente Gabbriellini ci porta dentro il locus amoenus trasformandolo subito in locus horribilis. Ci presenta un personaggio chiave del film, il giovane Davide interpretato da Lorenzo Rivola, e individua nel lupo non solo un animale totemico che pervaderà l’intera pellicola con il suo simbolismo, ma anche il motore narrativo dell’intera vicenda.

Tematicamente invece, con selva, ragazzo e lupo – e anche morte – il regista decide di mettere subito in chiaro le cifre immaginifiche e discorsive del film. La selva è l’intrico fiabesco dove tutto è informe: abbiamo un paesino sperduto sull’appennino, fatto di poche strade e poche anime, inoltre sembra essere estate – per i torsi nudi, le magliette, le ragazze a prendere il sole in costume da bagno – ma la natura sembra essere sempre autunnale, e anche il taglio della luce solare non è estivo. Un altrove e un altrieri quindi, ispirati e voluti, di cui la selva è il contenitore magico. Il ragazzo è il bassocontinuo della storia. Va oltre i protagonisti, due adulti e un giovane, è molto fisico e terrigno, e porta addosso i segni di una certa primitività villica: tratti somatici forti, un rozzo stile comunicativo, un machismo posticcio di provincia, una grande percentuale di rabbia repressa e poca cultura. Gli adolescenti quindi, serpeggiano lungo tutto l’arco narrativo come atomi impazziti, la loro è una presenza forte, molto sentita, e non sono semplici spalle, semplici marginalità. Il lupo è invece l’ombra junghiana, è il demone di eredità cattolica e quindi popolare, è lo spettro di cui avere paura, ma è anche rabbia, bestialità, famelicità incontrollata e istintiva. Il cadavere del lupo abbattuto è un convitato di pietra e pelliccia di cui si fatica a liberarsi, e la cui maledizione trascina tutti nella finale spirale di violenza. In ultimo, la morte, appunto. Dall’inizio alla fine del film è palpabile e fortemente preannunciata fin dalla prima sequenza. Ci viene ricordata dalla moglie disabile del famoso cantante Fausto Mieli alias Gianni Morandi e dagli innumerevoli snodi suspance che la presagiscono regolarmente.

Edoardo Gabbriellini riesce così, variando i piani narrativi e i registri, a proporci un film a metà strada tra horror rurale, sull’impronta di tanti americani che hanno fatto la gloria del genere, e commedia nera. Quasi una favola, che scomoderebbe anche cappuccetto rosso, ma più certamente un film complesso, dalle articolazioni nervose, dalle immagini fortemente sensibili, dai personaggi incredibilmente ambigui come il vecchio cantante in riuso interpretato da Gianni Morandi, vera anima nera e ambigua della pellicola, di cui non si capisce se è una specie di Ambrosio che segrega e abusa la moglie malata, oppure il suo cinismo è frutto della disperazione di non aver più per sé la donna che ama. Va detto che Morandi, se gli togliamo la cadenza da recita oratoriana, se la cava benissimo ed è capace di scoprire corde emotive insolite, velate di una certa morbosità.

Il resto del cast non fa una piega. Mastandrea, anche sceneggiatore, è il protagonista vero e proprio, interpretando un personaggio spassoso che ci sa togliere più di una risata, e che al tempo stesso veicola un malessere e un disagio sensibilissimi. La Bruni Tedeschi è in parte, la sua parte, e riesce ad essere odiosa quel tanto per non dare a Morandi, suo marito, tutte le colpe di questo mondo. Poi c’è lui, Elio Germano. Qui più defilato che in altre pellicole. È il contraltare del fratello. È limpido, solare, canonico. Infatti è purtroppo monolitico, non cambia. È più una macchietta che un personaggio preciso. La differenza sta nella sua faccia e nel suo corpo. È uno dei migliori attori italiani, e anche un ruolo monocorde come il suo Elia diventa nelle sue mani un personaggio interessante, almeno sceniamente.

Tutto il sistema dei personaggi è comunque più che azzeccato e preciso, puntuale nella definizione dei ruoli, senza sbavature, senza mediocrità, senza primedonne. Una funzione importante è esercitata dalla ragazzina che si invaghisce di Germano e deflagra i risentimenti adolescenziali dei locals. Ma sono tutti loro, gli autoctoni, come nella miglior tradizione redneck, soprattutto i ragazzini, ad essere l’elemento perturbante del film. Sono loro, con la loro ignoranza, la loro trivialità, l’isolamento culturale e sociale in cui sono cresciuti, in cui hanno vissuto, amato, odiato, scopato, bevuto, riso e pisciato; sono loro a tessere una tela di relazioni disfunzionali che intrappolerà i due innocenti e candidi stranieri, una sorta di calibani al rovescio, messi in croce perché forestieri benché portatori di esotismo, di trasgressione e di una sensualità normalizzata e non sclerata e isterica come quella dei paesani abbruttiti dalle loro relazioni chiuse, o come quella illusa degli adolescenti a cui basta fare qualche muscolo, avere il corpo glabro, saper impugnare un’arma e fare i bulli con le macchine per credersi piacevoli, erotici, divi della pornografia – tant’è che la ragazzina di Lorenzo Rivola gli preferirà l’Elia di Elio Germano che è tutto fuorché teeny.

Tutto questo pandemonio emotivo, il cui climax finale è accompagnato per contrasto dalle note della canzone d’amore che Morandi canta alla moglie, è diretto con dosaggio, sapendo equilibrarlo con scelte visive tipiche di chi è anche attore e non solo regista. Può piacere oppure no, ma la sua ambiguità non può lasciare indifferenti e va così a rimpolpare un lunghissimo filone di cinema italiano dedicato a smontare i pregiudizi e la sottocultura violenta della provincia italiana. La stessa che poi si riversa nelle urne ad ogni tornata elettorale ad eleggere il proprio mostro rappresentativo.

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