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The Grey

Regia di Joe Carnahan vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su The Grey

di M Valdemar
6 stelle

A dispetto di tutte le perplessità - più o meno giustificate - che si possono avere nell’affrontare la visione di questo film (tra le altre: la storia certo non originalissima; un protagonista discontinuo come Liam Neeson; un regista, Joe Carnahan, dal curriculum pericolosamente in discesa), The Grey si rivela al contrario un’opera sorprendente e riuscita, almeno in buona parte.
La materia narrativa s’incanala lungo meccanismi e snodi che costituiscono sostanzialmente una rete già conosciuta, visitata; in particolare, sia in quelle che sono le tipologie dei personaggi (il duro dal passato drammatico, il bastardo, il buono, l’omaccione, il riflessivo ecc.), nella loro interazione, nelle dinamiche di gruppo, sia nello svolgimento cronologico dei fatti. Formalmente lo si può ascrivere alla categoria dei “survival movies”: nel caso specifico l’evento scatenante è lo schianto, nel bel mezzo degli immensi inospitali ghiacci dell’Alaska, di un aereo che trasporta “merce” umana di seconda qualità, quelli di cui non frega granché dannarsi per cercare di trarli in salvo. Se, dunque, l’attenzione è facilmente indirizzata verso il susseguirsi di sventure dei nostri, che devono affrontare non solo la tragedia ed i suoi risvolti e conseguenze (la fame, il senso di smarrimento, il gelo, la paura) ma anche la natura selvaggia, rappresentata tanto dall’avverso clima e paesaggio quanto dai famelici lupi divoratori di uomini, la costruzione di tutto ciò è realizzata in maniera esemplare e coinvolgente, con un ritmo serrato, fluido e una messa in scena pratica ed ottimale.
Pellicola che punta dritto in una direzione, senza perdersi in inutili e fuorvianti manierismi e didascalismi; un accenno, qualche parola, uno sguardo, una (re)azione, uno scontro: concreti e semplici elementi a delineare efficacemente psicologie e caratteri che, per quanto già ci appartengano, risultano credibili e non meri pupazzi-pedine di un gioco al massacro del quale si rimane in trepida attesa di vederne l’orribile fine. Si potrebbe forse muovere qualche appunto alla stucchevolezza di taluni momenti, quelli che riguardano ricordi, visioni, pensieri del protagonista aventi come oggetto l’amata defunta moglie, eppure, data la loro brevità, tutto sommato non incidono più di tanto.
Tenendosi alla larga da ambiziose e sterili pretese pseudofilosofiche, esistenziali, il film si concentra su metafore elementari, che possiedono però una forza quasi “primordiale”: l’impatto con l’impervia, ostile, sconfinata natura certo, ma anche il confronto/scontro con il branco di lupi, vere e proprie controparti degli impauriti, ma pur sempre “invasori”, uomini.
Questione di spazi, di convivenza, di capibranco.
Apparentemente immobile, vigile, sede di questa atavica rappresentazione è uno scorcio di terra d’illimitata, sconvolgente, maestosa bellezza (e non a caso uno degli ultimi sopravvissuti, piuttosto che agonizzare alla ricerca di una salvezza già perduta, decide di fermarsi e passare gli ultimi sgoccioli di vita mirando un panorama ineguagliabile, stordente). Lo spettacolare paesaggio, più che un banale sfondo da cartolina diventa un personaggio pulsante, decisivo, vivo, al centro dell’azione. La resa estetica è eccellente, poiché si viene immersi in mezzo a cotanta stupefacente letale meraviglia: da valutare pertanto più che positivamente la direzione della fotografia ad opera di Masanobu Takayanagi (tra i lavori recenti da menzionare Warrior di Gavin O‘Connor).
Ma, se un’ambientazione del genere è quasi “normale” che costituisca un pregio non da poco, il vero punto di forza di The Grey è l’atmosfera: sin da subito aleggia un sentore di morte, di fatalismo che pervade volti e corpi di questi uomini in lotta contro le avversità, i lupi (i loro ficcanti ululati sono una tonante sinfonia presagio dell’orrore), Dio, se stessi. Una rarefazione dell’animo che disegna lineamenti imperturbabilmente votati all’ineluttabile. In tal senso si staglia emblematica la figura del protagonista, John Ottway, uomo che porta i segni del tragico passato (la perdita della moglie ma anche il ricordo del padre, poeta e ubriacone figlio di puttana) dentro di sé e nelle frequenti proiezioni mnemoniche-oniriche che lo rendono una bestia ferita, sola, con pensieri di morte che gli attraversano la mente (il desiderio del suicidio) e che sfrutta per essere un “perfetto” capobranco.
Fino alla fine: rimasto l’unico sopravvissuto, dopo aver invocato invano l’aiuto da qualcuno lassù in alto e aver fatto ricorso agli ossessivi versi del padre (“Ancora una volta nella mischia / E’ l’ultima vera battaglia che affronterò / Vivi e muori in questo giorno / Vivi e muori in questo giorno”), l’uomo si ritrova nel bel mezzo della tana dei letali e bellissimi animali, affamati di carne e di sfide.
Quella finale, definitiva, lo vedo contrapposto al suo corrispettivo tutto peli, furia e fierezza; ma non viene mostrata, sospesa, com’è, sul volto teso e risoluto di Liam Neeson (immortalato sulla locandina) e chiusa dalla riconoscibile potente “voce” del lupo.
Un buon “ritorno” quello di Joe Carnahan (produzione firmata Ridley e Tony Scott), che concentra l’attenzione e la tensione con inquadrature che alternano con costrutto e logica tanto l’ampiezza di respiro dedicata all’ambientazione quanto i primissimi piani che passano in rassegna una credibile gamma emozionale sulle assortite facce, anche se tendono a rendere un po’ troppo concitate e confuse alcune sequenze di azione, in particolare in quelle di lotta.
Discreto il lavoro sul montaggio e ottimo quello sui suoni, sia che rivestano la forma di meri effetti atti a creare il senso di angoscia, d’inquietudine, di minaccia, sia che definiscano una colonna sonora incisiva (molto bello il pezzo sui titoli di coda), realizzata da Marc Streitenfeld (che ha all’attivo proprio l’ultima fatica di Ridley Scott, Prometheus). Ad ogni modo The Grey è un film viscerale, teso, che si prende il giusto tempo ben dosando le varie parti, fornendo un ritratto verosimile soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi.
Alla cui riuscita contribuisce la variopinta pattuglia di attori: Liam Neeson, che come si accennava in apertura balza (troppo) da un ruolo all’altro con prove altalenanti (e in film spesso non irrinunciabili), si dedica con buona applicazione alla causa, riuscendo a esprimere in maniera convincente i tormenti e la determinazione di John Ottway. A fargli efficacemente da spalla una serie di volti e corpi più o meno noti (Dermot Mulroney, Nonso Anozie, James Badge Dale), tra i quali spicca di prepotenza Frank Grillo, ottimo e sottoutilizzato caratterista; in assoluto il migliore dell’intero cast.









 

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