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The Grey

Regia di Joe Carnahan vedi scheda film

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La recensione su The Grey

di scapigliato
9 stelle

Un’avventura di soli uomini per un pubblico tutto virile. Non c’è traccia di femminilità in The Grey di Joe Carnahan, se escludiamo quella evocata extradiegeticamente nei sogni e nelle allucinazioni. Infatti, fin dalle sue origini identitarie l’America, tra i suoi vari temi sempiternamente trattati, ha prediletto l’assenza del padre e la fuga dalla madre. In The Grey assistiamo a una grande messa in scena americana, uomo contro wilderness, dove l’assenza del padre è suggerita sia dalla continua disfunzionalità del gruppo di superstiti al disastro aereo, sia dal ricordo del distaccato rapporto paterno del protagonista. La fuga dalla madre invece, è chiaramente un implicito dovuto all’assenza sentitissima della figura femminile. Oltre questi due temi cardine dell’identità americana bisogna aggiungere quello già citato dell’uomo contro la wilderness declinato però in un filone specifico, tra i più emblematici del corpo identitario statunitense, nonché tra i filoni a mio parere più suggestivi di tutte le forme di rappresentazione, quello solitamente denominato animal attack movie – o eco-vengeance secondo alcuni, ma non per il sottoscritto.

Basterebbe leggere i primi capitoli di Zanna Bianca (1906) per trovare il più autorevole precedente letterario a questa storia di un manipolo di disperati persi tra le nevi perenni del grande nord inseguiti costantemente da un famelico branco di grossi lupi grigi – oltre che al racconto originale di Ian Mackenzie Jeffers da cui è tratto il film. E basterebbe andare indietro di qualche decennio ancora per ritrovare in Moby Dick (1851) il germe originario di questo inquietante quanto eccitante filone narrativo dove si racconta di uomini che si scontrano con bestie feroci in un lungo e logorante duello tanto psicologico quanto fisico.

Il cinema è stato sempre molto generoso in questo speciale sottogenere horror. A volte declinandolo in ibridi fantascientifici – animali alterati dalla scienza o dall’inquinamento, belve di altri mondi o di altri pianeti, etc – o in realistici survival-movie dal taglio decisamente orrorifico, senza escludere le discese autoriali nei labirinti dell’essere umano attraverso l’incontro con la bestialità – ne valga uno su tutti: L’orso (1988) di Jean-Jacques Annaud – il cinema si è sempre rivolto con interesse a questa specifica struttura narrativa battezzata da Hitchcock con Gli uccelli nel 1963 e perfezionata poi da Spielberg con Lo squalo nel 1975. Il punto di forza di questo genere è l’emersione delle paure più ataviche, legate all’incontro/scontro con l’essere ferino, lo sconosciuto, la bestia. Un ambiente selvaggio, una minaccia animale, il confronto con se stessi rappresentato dal duello selvatico sono alla base, non solo dell’identità americana, ma dell’identità di tutti i popoli.

Joe Carnahan in The Grey sviluppa, a partire da un testo letterario la cui presenza fortunatamente è molto avvertibile – la voce off del protagonista calza perfettamente con la sequenza anti-narrativa e sintetica con cui si apre il film – una rete di paure e di loro proiezioni capace di coinvolgere tutta la scala delle nostre corde emotive. Motivi quali il disastro aereo – l’aereofobia, il disaster-movie, etc – la sopravvivenza in un ambiente ostile e inospitale, il gruppo di superstiti come caleidoscopio dell’eterogeneità della società, i loro scontri, i loro accordi, il loro stato relazionale, e infine l’attacco del branco di lupi, sono resi narrativamente con molto equilibrio e non appesantiscono la sceneggiatura, anzi la rendono solida e precisa.

Ci troviamo difronte a uno dei migliori esemplari di wilderness-drama, e se anche volessimo valutarlo solo come uno dei tanti animal attack movie del mercato globale risulterebbe sempre superiore alla media, uno dei rari casi in cui il gusto e il piacere della struttura narrativa coincide con un azzeccatissimo risvolto umano e psicologico. Corredato di parecchie scene chiavi e di dettagli fondamentali, il film gioca sul parallelismo tra il branco di lupi e il branco di uomini, e non è un caso se immediatamente dopo al duello gerarchico tra il capobranco e un altro maschio del wolfpack arriva proprio un duello ugualmente gerarchico tra il protagonista Liam Neeson e lo spocchioso Diaz, l’elemento disturbante del gruppo di superstiti.

Per tutto l’arco del film il regista non ci suggerisce la lettura simbolica dell’uomo contro la bestia, ma ci dimostra con taglio a tratti realistico e a tratti iperreale – per non dire dell’anti-naturalismo di tanti passaggi onirici che si fondono con la diegesi – tutta la fisicità di tale scontro. L’uomo, animale a sua volta, difende la propria vita anche in territorio altrui, mentre i lupi giustamente difendo la propria territorialità e non fanno altro che fare quello che la natura ha impresso loro nel sangue. Non ci sono cattivi o buoni, eroi o villain. Non c’è una dialettica tutta hollywoodiana tra bene e male, ma solo una grande rappresentazione umanista della verità della natura, sia umana che animale.

Il pregio di The Grey è quello di mettere sullo stesso piano uomini e lupi, e di lasciare, grazie al finale aperto, aperta anche la questione ideologica: chi vincerà? C’è qualcuno tra uomo e lupo che merita preventivamente la vittoria solo per partito preso? Il finale me lo aspettavo. Anti-hollywoodiano, molto coraggioso, lascia aperta la partita e finalmente mette uno contro l’altro i due maschi alfa dei due branchi della vicenda, quello lupesco e quello umano.

Mai uomo e minaccia animale sono arrivati a questo grado di simbiosi ed empatia in un animal attack movie – tutt’altra cosa è il legame tragico che lega uomo e animale come in Lo squalo. Abituati allo scarto ideologico che metteva l’uomo sempre dalla parte del bene anche se colpevole di alterazioni o di scempi contro la natura, restiamo affascinati davanti a questa classica avventura che vede l’eroe guerriero, il soldato, come archetipo del viaggiatore, dell’attraversatore, del conquistatore e dell’esploratore. Anch’egli come un lupo circoscrive il suo territorio, lo segna, si organizza socialmente, elegge i suoi capi e come un lupo famelico cerca di cosa cibarsi, e quando lo trova nel nemico secolare – ricordiamoci che il lupo è stato fin dall’età della pietra l’animale totemico per eccellenza dell’uomo occidentale – s’impossessa di pelli, di teste mozzate e di carne stopposa, e come tale bestia affonda le proprie zanne nel corpo avversario. Esorcizzazione o solo vendetta primitiva? Entrambe. Da un lato il possesso fisico del nemico aiuta l’animale razionale, l’uomo, a creare una legge morale intorno ai propri istinti e a darsi certezze che altrimenti non avrebbe, anche perché non esistono; dall’altro lato questo accanirsi feroce contro il nemico smaschera un istinto alla violenza e al sangue che ci riporta indietro di millenni e collega strettamente e senza rimedio l’uomo primitivo con l’uomo contemporaneo, come se le guerre e le follie del potere non fossero lì a ricordarci che animali siamo. Si parla di “lupi di Wall Street”, di squali della finanza, di uomini soli come un cane, furbi come una volpe, e così via, non per niente. L’animale è il primo grande referente della rappresentazione umana – guardate le incisioni rupestri cosa descrivono. E come tale referente resta l’indiscusso nemico, l’unica grande nemesi, capace di essere il motore narrativo di una universale rappresentazione dell’uomo nella sua continua domanda di sé.

La ricerca di un dio che non esiste, la bestemmia e lo scontro aperto con tale divinità, piuttosto che la discesa infernale dentro il proprio animo scosso dalla violenza, dall’odio, dall’educazione al dominio e allo sterminio – il protagonista afferma di “aver smesso di fare del male in questo mondo” quando decide di togliersi la vita senza riuscirci e ripensare così al proprio ruolo nel consorzio umano – sono solo alcuni degli esistenzialismi di cui il film si fa carico. Fortemente blasfemo, The Grey rinnega dio. Il dio degli uomini è solo un immenso e inquietante silenzio in mezzo alla vitalità e al rumore della natura, l’unica entità a cui siamo davvero legati e a cui dobbiamo rispondere oltre che poterci rispecchiare. L’uomo, come il lupo – dopotutto il personaggio di Diaz non è forse un lupo ferito che va a morire cercando il posto giusto dove lasciarsi andare? –cerca le proprie risposte e le trova nella verità della natura, nella sua immanenza, in un corpo squartato, in un fiotto di sangue, nell’aria che esce dai polmoni, nella fame, nella sete, nel bisogno di dormire, pisciare, cacare, stringersi forte intorno a un altro corpo, infine nella verità di un primitivo scontro tra uomo e bestia.

 

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