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Le belve

Regia di Oliver Stone vedi scheda film

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La recensione su Le belve

di M Valdemar
6 stelle

"Oiganme pendejos
Con gueros - si
Con negros - no
Marihuana - si
El polvo - no
Llego la troca
Cien kilos de la blanca
Hay que pintarlas
Con sangre de perro"

[da "Consejos Narcos" - album "Raza Odiada" dei Brujeria]

  Oliver Stone è come un animale ferito: le sue armi vanno infiacchendosi, la sua difesa svela falle, la sua presenza - una volta imponente, massiccia, subita - ormai appare completamente assorbita dal sistema. Eppure continua imperterrito a proseguire su un percorso che non lo vede più tra i protagonisti, e nel compierlo non può far altro che mostrare la propria natura. Selvaggia? No: di belva impaurita; laddove la paura principale, resosi conto anch’egli del sopraggiunto stato, è quella di “sparire”. Quindi ne “spara” sempre di più grosse: il suo spirito, dopotutto, è geneticamente bellicoso ed indomito. Ma per restare nel sistema deve arrendersi al compromesso. E di questi nella sua ultima fatica, Le belve, ce ne sono parecchi.
Quello più visibile, ovvio, imperdonabile, concerne la scelta (ammesso che egli ne sia in qualche modo direttamente responsabile) dei tre protagonisti, bambolotti scolpiti, il cui unico “merito” risiede nell’aspetto da modelli (e certo non basta riempirli di tatuaggi, cicatrici posticce e capigliature alternative per renderli più “veri”), e la cui inettitudine recitativa fa quasi tenerezza. Il nullo Taylor Kitsch, figurina action tutta muscoli e istinto, non è credibile/digeribile nemmeno per una frazione di secondo (per dire, Steven Seagal avrebbe avuto maggior spessore); Aaron Johnson, distinguibile per via del look radical (rasta) chic, risulta il meno peggio dei tre; infine, la performance dell’indubbiamente avvenente biondina Blake Lively conosce solo due modalità: col trucco e senza. Si può ben comprendere come tale fardello costituisca per Stone l’ennesima avversità da affrontare tra le tante nascenti da una sceneggiatura (tratta dall’omonimo romanzo di Don Winslow, anche coautore del copione) drogata di protagonismo e squinternata.
Il triangolo sessual-amoroso dei suddetti non è per nulla convincente, stretto tra rapporti orgiastici all’acqua di rose, finti e casti come in una soap opera, e farlocche sedute collettive di fumo (lo si capisce solo per via degli attrezzi usati). Si stenta a credere che la sciacquetta O (la Lively) costituisca il fulcro di una relazione così atipica e (in teoria) forte e scateni tutto quel casino: in un qualsiasi noir, da quello più degno a quello più trascurabile, come pure in un’ipotetica realtà, avrebbe finito per mettere i due amanti uno contro l’altro. Oppure l’avrebbero lasciata lì, nelle gentili mani dei narcos mozza-teste. Il finale (il “secondo”) li vede immersi in una naturistica dimensione da “Laguna blu”, evidentemente il posto giusto per loro; la prima versione era preferibile (ma senza quella pagliacciata drammatica da Romeo e Giulietta), ma chi se ne frega. In sostanza, l’empatia per quelli mai sorge; il tifo, spudorato, drogato (questo sì), va tutto ai cattivi.
Tra un John Travolta, agente corrotto della DEA che cambia alleati/padroni più delle mutande, un Benicio del Toro viscidissimo e crudele al servizio del cartello, e una Salma Hayek, “reina” Elena a capo dell’organizzazione criminale, imparruccata e schizzata come non mai (in assoluto la migliore del cast), il profilo degli antagonisti è completo e anche riuscito, e grottesco quanto basta; di tutt’altra levatura, insomma (sia per le prove degli attori sia per una maggiore identità dei caratteri), rispetto al terzetto di pupazzi inespressivi di cui sopra.
Naturalmente pure loro finiscono coinvolti nel balordo giogo della macchina narrativa.
Stone, dal canto suo, cerca di porvi rimedio, e contemporaneamente soddisfare le proprie velleità autoriali e dar sfoggio delle sue (riconoscibili e riconosciute) abilità registiche: svia, confonde, mescola (l’alternarsi poco fluido, eccessivamente “attento” a non deragliare, di registri - crime, action, thriller, grottesco - è un frullato potente ed insieme troppo sapido). Schizza (per fumi derivativi ancorché dosati con perizia), flirta col pulp (imponendo una violenza caricaturale, sopra le righe che però sono andate in astinenza), scherza col western (la resa dei conti finale), scivola su mezzucci lubrificati da teen drama, ed ancora accelera e s’arresta, fissa (primi piani) e destruttura (il giallo raggiante degli scenari acceca annebbia evapora spella i canoni mélo-noir), fraseggia e cazzeggia, analizza e cannibalizza, istiga per poi tirare la mano indietro, vira su sentimentalismi grossolani ed effonde sensazioni (sovente informi, sterili) più che infondere consistenza “sporca” (gli odori non sono quello che sembrano).
L'illustrazione stoniana - conseguenza applicativa di una formula estetica ansiogena, urlante/urlata, urgente, turgida, composta da nobili esigenze di intrattenimento, deliqui transattivi, innegabile predisposizione alla causa (al caos al casino allo scasso), ed assistita amorevolmente dal montaggio sussultante/eccitante, dalla colonna sonora pompante modulazioni alienate da rave party, dalla vigorosa e schietta fotografia serena/variabile - non è certo priva di fascino e viva, profonda godibilità nonostante le pecche rilevabili.
Carente di muscolatura e dedizione cardiaca, e senz’altro di ingegno neuronico, nonché dell’ingenua vaghezza del principiante e di sudicia sanguinolenta solennità, Le belve, ha quel tenero incedere ossessivo-compulsivo, viscerale, che la rende un’opera, sì discutibile e difettosa, fors’anche non necessaria, ma anche perversamente attraente.




 

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