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Le belve

Regia di Oliver Stone vedi scheda film

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La recensione su Le belve

di ROTOTOM
6 stelle

Le belve tratto da Don Winslow, titolo originale Savages, i selvaggi.  Un noir in pieno sole che trasforma la California di Palm Beach, onde luce bikini auto di lusso,  in un luogo sempre più orrendo, cupo marcio. Sotto il sole della California si scannano i trafficanti di droga messicani, i grossisti e i produttori, i killer prezzolati e i poliziotti corrotti. Sotto il sole che mostra tutto ma proprio tutto, ogni ferita, sangue , escoriazione, lacrima.

I trafficanti di  droga legati al cartello messicano della madrina Elena, si intestardiscono nel pretendere la “collaborazione” di due piccoli produttori di ottima erba. Ben (Aaron Johnson)  e Chon (Taylor Kitsch) il primo botanico, buddista pacifista no global, re-investitore dei guadagni per la salvezza dei bambini africani. Il secondo, ex  Navy Seal, già impegnato in Afghanistan e Iraq, violento e omicida. In mezzo, in tutti i sensi, O ovvero Ophelia (Blake Lively), ragazza bionda, disimpegnata col mondo, amante ricambiata di entrambi i ragazzotti. Poi c’è il killer Lado (Benicio del Toro), spietato,  poi c’è Elena la madrina del cartello della droga, una grottesca Salma Hayek con le tettone e il look da decadente Cleopatra e un laido agente FBI , Dennis (John Travolta) che fa doppi giochi come se piovesse

Oliver Stone non ha più niente da dire da un pezzo. Un nulla urlato a suon di estasi dell’estetica sempre un po’ fine a se stessa, personaggi limite tutti consapevolmente e partecipativamente sopra le righe, un ritmo elevato e un doppio finale, tanto per gradire,  che sembra figlio di quell’indecisione  di fondo che aleggia per tutto il film e che lo barcamena tra lo sberleffo  tarantiniano tarato al netto del genio del nerd di Knoxville e il delirio parossistico di Assassini nati.

Non ci si crede neanche un po’ a questa storia e forse la cifra stilistica da abbracciare è proprio quella dell’incredulità a priori generata da situazioni e personaggi sostanzialmente incoerenti rispetto alla vicenda rappresentata. L’amore a tre dei giovani lisci-abbronzati-pettoruti protagonisti, idilliaco come un romanzo Harmony scritto sotto acido, è posticcio come un film anni ’80. Violenza  esibita e virata buonista coesistono stridendo sotto i colpi di uno Stone più preoccupato di rendere belle le scene tra dolly e carrelli, accelerazioni e sgranature da camera a mano che a fornire uno spessore o almeno toglierlo del tutto, ad un film nato e morto disimpegnato.  Le Belve è un western accecante e lisergico, iperrealista pop e ridondante nella forma quanto nella diegesi della storia fino alla resa dei conti finale, il tutto cucito da una voce over narrante sovrapposta ad un senso che dovrebbe appartenere alle sole immagini.  E’ divertente a tratti, dramma smorzato da un’ironia da fumetto, con personaggi colorati e monolitici che affastellano secondo tradizione idiozie su idiozie, tradimenti e doppi giochi, in un ritmo che non lascia spazio alla tensione o alla trasmigrazione delle psicologie nella parte oscura dell’essere, come avviene nei noir. Mostri sembrano e mostri sono, ma animati ognuno da sentimenti privati che pregano per le loro miserie ma non entrano mai in empatia con quelle altrui. Immersi in tantissima azione vengono sciorinati i totem dell’attuale società del benessere, scardinata nelle certezze da una globalizzazione informatica, economica, criminale e finanziaria che fonde i rispettivi confini labili e osmotici in un unico magma ove tutto è il contrario di tutto. I buoni sono meno buoni anzi diventano cattivi per caso,  i cattivi sono meno cattivi e si ritrovano buoni per necessità. Questo voleva dire Stone. Credo. Ma senza crederci troppo tira fuori un film che ammicca al genere ma non ne condivide la purezza, diretto con il gusto dello spettacolo ma tronfio e gonfio di eccesso di regia. Un film che non ha un’identità precisa.  Tra sparatorie, crudeltà, humor nero e sangue, Le Belve arriva in ritardo sulla corsia già occupata da Tarantino del quale segue le tracce stilistiche senza raggiungerne le vette,  risultando un prodotto dignitoso ma che sa un po’ di stravisto. E di stracotto.

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