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Le belve

Regia di Oliver Stone vedi scheda film

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La recensione su Le belve

di OGM
8 stelle

Perché belve? I Savages di Oliver Stone sono selvaggi. La bionda Ophelia, detta “O”, ha cercato la definizione del termine sul dizionario: cinico, rozzo, regredito ad un primitivo stadio dell’essere. È dunque una condizione in cui non si nasce, ma che si acquisisce vivendo. È uno stadio istintuale a cui ci si riduce anche in maniera deliberata e lucida, con il sostegno del pensiero, e magari con l’aiuto di quelle droghe che sono la risposta razionale alla follia. John e Ben sono i grandi amori di O. Sono, rispettivamente, la carne e lo spirito, e si completano a vicenda per formare l’uomo perfetto. Quel triangolo realizza un’ideale fusione di corpi ed anime, che domina il mondo dall’alto di una lussuosa villa californiana, affacciata sull’oceano: un angolo di paradiso che custodisce, al suo interno, la piantagione di una miracolosa erba importata dall’Afghanistan. Quanto basta a fare di quel regno un appetitoso territorio di conquista per la bella e diabolica “regina” messicana che di nome fa Elena Sanchez. Le premesse sono semplici e scontate, ma la storia proseguirà aggrovigliandosi a dovere, perché la verità ha una mente propria. Basta che quei due ragazzotti arricchitisi con tanto ingegno e pochi scrupoli compiano un piccolo errore di gioventù, un passo falso imperdonabile nel mondo dei poteri forti, perché la loro love story abbandoni la strada della favola tropicale ed imbocchi quella dell’incubo criminale. Ricatti incrociati, doppiogioco, rapimento ed agguati mortali sono gli ingredienti di una vicenda in cui la crudeltà trova pane per i suoi denti, pescando direttamente dalla realtà, senza dover inventare nulla di nuovo. Per mettersi al servizio di una fantasia macabra e vagamente autoironica, l’universo dei narcos si tinge dei toni fatali del noir e degli accenti spettacolari dell’action movie hollywoodiano, versando il suo tributo agli elementi classici del genere, ma con la dovuta parsimonia. Non è il caso di esagerare, perché, in fondo, tutto, in un modo o nell’altro, appartiene al già visto. E poi l’importante è descrivere l’evoluzione delle personalità dei due protagonisti, che entrano progressivamente nel ruolo delle “bestie”, senza, per inciso, crederci troppo. Anche la spietatezza, infatti, si relativizza, in questa nuova visione del male che prende le distanze dai Natural Born Killers e dalla loro cruenta cecità per introdurre motivazioni, scopi, valutazioni strategiche. La violenza si libera del gusto sadico fine a se stesso per inserirsi in un quadro finemente articolato, nel quale è addirittura possibile immaginare due finali alternativi. La furia omicida è una componente funzionale ad una particolare fase del gioco che, in questo caso, unisce la lotta per la sopravvivenza al nobile scopo di salvare un sogno romantico. È una malattia che fa soffrire, e dalla quale si può guarire. Ed è parte di un’avventura come tante, contorta ed oscura, che, insieme alla giusta dose di (anti)eroismo, contiene anche un pizzico di filosofia. Con questo film, Oliver Stone si fa piccolo per ritornare grande: mette a tacere la sua nevrotica provocazione diretta contro i miti di una società competitiva, avida e militarista, per far maturare la felice intuizione presentata in W.: quella che, sfiorando la caricatura, mostra il brutto spogliato di ogni carisma, in modo che non sia più in grado di fare paura. Il racconto – è proprio il caso di dirlo – si nutre del proprio stesso sangue, rinunciando a farsi icona della mostruosità come categoria generale (quella della guerra, del denaro, del fanatismo). I cadaveri e gli assassini, ben inteso, ci sono. Ma, una volta tanto, non sono indispensabili al senso complessivo del discorso.

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