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Una tragica scelta

Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film

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La recensione su Una tragica scelta

di OGM
8 stelle

L’islandese Baltasar Kormákur sbarca in America e si vota all’ordinarietà televisiva. Ma questa è solo l’impressione iniziale, destinata a cadere mano a mano che il film si allontana dalla premessa a base di elementi da fiction ospedaliera e di legal thriller, per addentrarsi nelle viscere di un’atroce realtà. Dopo Maria Full of Grace di Joshua Marston, riguardante lo sfruttamento dei corrieri della droga, e Trade di Marco Kreuzpaintner, dedicato al crudele traffico di donne e bambine, questo Inhale affronta un altro capitolo della mercificazione della carne umana: stavolta i confini meridionali degli Stati Uniti sono il teatro dell’orribile mercato degli organi, e le vittime sono nuovamente gli esseri più giovani, poveri e fragili.   Il cuore del dramma si raggiunge poco a poco, percorrendo un intreccio criminale camuffato dalla miseria, dalla clandestinità, dal caotico panorama della disperazione che trasforma le periferie delle città messicane in un triste ed osceno carnevale. I suoi personaggi sono bambini che si fingono gangster, poliziotti dalla doppia identità, gente comune che interpreta, per due soldi, il ruolo richiesto dal miglior offerente.  Kormákur torna, con l’incisività dell’action movie d’oltreoceano, sui temi della depravazione morale, che forma, insieme ai residui dei sentimenti umani, una pestilenziale miscela, intrisa di lacrime e sangue. La cornice, però, non è più, come nelle sue precedenti opere,  quella intimistica del dramma personale e dell’oscuro segreto di famiglia:  la sostanza della storia, pur essendo radicata nei risvolti più nascosti della sfera privata, si apre qui infatti, inaspettatamente, alla trattazione delle più complesse e dolorose problematiche sociali, come i devastanti fenomeni dell’infanzia abbandonata e della delinquenza minorile.  Il soggetto del film, che vede due genitori impegnati nell’estremo tentativo di salvare la vita alla propria bambina gravemente malata, riprende, sia pur in un contesto di ben altra natura, il tema centrale di Jar City, di cui, nel finale, cita letteralmente una scena. Il collegamento è intenzionale ed evidente, e l’elemento comune serve soprattutto a rafforzare il contrasto fra due registri drasticamente diversi: in questi il male è, rispettivamente, descritto come una condizione definitiva dell’animo umano, e presentato come una piaga da cui si può guarire. Alla rassegnata constatazione si contrappone, in questo secondo caso, l’esplicito atto di denuncia, la coraggiosa presa di posizione che affronta apertamente il dilemma e si mostra in grado di cambiare le cose. Alla durezza della sofferenza si sostituisce la difficoltà della lotta: il protagonista di questa battaglia è Paul Stanton, il padre della piccola, che sfida pericoli mortali, avversità pratiche di ogni genere ed anche le proprie personali convinzioni per rincorrere l’ultimo barlume di speranza. La tensione poggia su una costante ambiguità, in cui i tradizionali chiaroscuri del cinema nordico si sovrappongono ai giochi allusivi tipici dei popoli latini, a volte raffinati, a volte brutali.  È in questo modo che la storia avvince, facendosi strada attraverso l’intricato linguaggio verbale ed operativo della malavita,  ed anche, sul piano estetico, facendo progressivamente saltare l’aspetto convenzionale della superficie narrativa, per mettere a nudo, infine, il tragico succo del discorso.  Kormákur ama non concedere tregua allo spettatore, e in questo film raggiunge lo scopo trattenendoci in una perenne incertezza, non solo rispetto allo sbocco complessivo della vicenda, ma anche e soprattutto rispetto alla reale valenza delle singole situazioni, la cui interpretazione varia, retrospettivamente, nel corso del racconto. Inhale è un film d’autore privo di autorialità, il cui valore è una grande potenza espressiva, abilmente confezionata nella levigata veste del thriller hollywoodiano.
 

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