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Un angelo alla mia tavola

Regia di Jane Campion vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un angelo alla mia tavola

di laulilla
8 stelle

Versione cinematografica in tre parti delle cinque puntate televisive che Jane Campion dedicò nel 1990 alla poetessa neozelandese, al tempo ancora vivente, Janet Frame (1924 -2004). Il film, della durata di 158 minuti – 50 in meno della biografia nata per la TV – fu presentato e premiato* a Venezia nel 1999.

 

Questo film non è un biopic, almeno secondo l’accezione corrente: la regista ricostruisce gli eventi della vita di Janet Frame (Kerry Fox), indagando con empatica immaginazione sulla precocissima passione di Janet per la poesia, manifestata con adesione crescente fin dall”infanzia, quando quella meravigliosa piccola neozelandese (l’attrice bambina è Karen Fergusson), con la sua camminata impacciata, con la sua bella chioma di riccioli rossi, dal viso paffuto e dal corpo tondeggiante, scopriva il mondo e le bellezze della natura.

La sua innocenza sorridente era turbata dalle frequenti crisi convulsive del fratello – scambiato per matto e isolato dalla comunità per ignoranza superstiziosa – che le provocavano un disagio imbarazzante in cui si mescolavano il dolore per lui, il timore di non riuscire a farsi accettare senza pregiudizi, e il terrore di essere a sua volta vittima di quella malattia oscura e crudele.

 

Precocemente aveva scoperto l’incanto delle fiabe e del racconto in versi: immergersi completamente nella poesia era diventato presto un modo per sfuggire alla propria solitudine e per vedere il mondo con occhi diversi, nonchè l’indizio di una vocazione irresistibile, un destino al quale mai avrebbe potuto sottrarsi.

L’eccezionale qualità della scrittura e della poesia  le avevano consentito in seguito (l'attrice è ora Alexia Keogh) di accedere con borsa di studio alle superiori e all’Università, ma le sue difficoltà di rapporto col mondo esterno l’avevano indotta ad accettare il consiglio di concedersi un periodo di “riposo” in una clinica dove l'avrebbero "guarita" dei propri disturbi.

Ne era uscita, dopo otto anni, grazie alla notorietà guadagnata con un premio letterario, proprio in tempo per evitare che una lobotomia, già programmata, la distruggesse del tutto, dopo essere stata brutalmente devastata da ben 200 elettrochoc!

 

Erano iniziati, finalmente, gli anni della libertà, dapprima ospite di un anziano scrittore; quindi in viaggio per l'Europa, tra Francia, Spagna, Gran Bretagna e molti nuovi incontri - editori, agenti, intellettuali - prima di tornare, dopo la morte del padre, definitivamente in Nuova Zelanda. 

 

 

 

 

 

Jane Campion, avvalendosi della sceneggiatura di Laura Jones e della bellissima fotografia di Stuart Dryburgh (futuro Oscar con Lezioni di piano), con sensibile intuito e adesione visionaria, si è ispirata a tre volumi autobiografici della Frame per raccontarne l’infanzia (To the Is-Land); la lunga e orribile degenza in clinica fino alla sua liberazione (An Angel at My Table), e infine il periodo dei viaggi in Europa (The Envoy From Mirror City).  

Ci ha dato, in questo modo, il credibile ritratto di un’artista geniale il cui eccezionale talento – nonostante il moltiplicarsi dei lutti, dei dolori, delle incomprensioni e delle delusioni angosciose –  le aveva permesso non solo di non lasciarsi travolgere, ma anche di custodire gelosamente la propria diversità - singolare impasto di tenerezza, ingenuità e ritrosia - accettandola come fonte primaria della sua  poesia e della sua scrittura

 

*il film ottenne tre premi:
– il prestigioso Premio speciale della Giuria per la miglior regia;
– il Ciack d’oro, ancora per la miglior regia
– il premio di Filmcritica

 

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