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Posti in piedi in paradiso

Regia di Carlo Verdone vedi scheda film

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La recensione su Posti in piedi in paradiso

di lorenzodg
6 stelle

Posti in piedi in paradiso” (2012) è il ventitreesimo lungometraggio del regista romano che si ridisegna di nuovo in un personaggio da specchio verso i suoi comprimari. I ticchi e i vezzi corporei sono oramai ombra di se stesso e si spargano nell’ambiente e nei suoi idiomi dei contorni: tutto si attesta e si sfilaccia in sit gergali e in modi dietrologici. Ed ecco che le comparse vere e proprie assumono un luogo di esistenza narrativa (e fisica) come il saluto davanti ad una telecamera e l’incitamento da set dei ‘romani’ davanti alla saracinesca chiusa del negozio di Ulisse (per telefonare ai vigili del fuoco) diventa un po’ coro da stadio che se da una parte incita al sorriso sornione dall’altra parte cazzeggia al più lascivo degli spiriti burini di un contrappasso vero della commedia all’italiana (dei padri veri, dei Risi, Germi, Monicelli, Comencini).     Un film in cui aleggia uno spirito consunto e dove la battuta è stretta fra i denti e appare fuori ordinanza: aspetti il botto e ne interpreti il gusto ridanciano. Poco sberleffo (con i tempi grami di crisi) e poca cordialità umana (ne scaturisce un luogo familiare inesistente e una comunicazione virtuale intristita). Ciò che scuote è l’idiozia spudorata di finzioni tra consimili e la parvenza scabrosa tra bocche che schiumano parole di sbieco con oltraggio ad un sputo interno. Una rondine di teatro ammanta il corpo attoriale dei nostri che disbrigano la faccenda con fuori onda da finti incazzati e riprese da incazzati sagaci. Ulisse Diamanti (Carlo Verdone), Domenico Segato (Marco Giallini) e Fulvio Brignola (Pierfrancesco Favino) si ritrovano fuori casa dalle mogli per condividere un affitto di un appartamento da consumare con pochi soldi in tasca. In comune solo piccole diatribe dietro a cui si nascondono problemi sociali, di crescita, di colpe e di responsabilità. Tutto viene visto con situazioni dolciastre e fuori ordinanza in cui il comune denominatore è lo sfizio a prendere quello che non si ha e a distruggere quel poco che si ha. La naturalezza del presupposto si perde dentro ad una vita di confini distorti e ad un vociare inutile e mai persuasivo. Tutte le schermaglie dei tre sembrano macchie di contorno dentro un calderone sociale di rara bruttezza e a un minestrone oramai insipido. Il ridere è sollievo o quantomeno cadente, perché Ulisse si tiene un attimo in disparte capendo (senza sconti) che il Verdone tritone di qualche tempo fa si può celare dietro a dei giochi di facce oramai (s)finite e disilluse dell’oggi.
    L’incontro tra Ulisse e Fulvio alla visita dello stesso (primo) appartamento con l’agente immobiliare Domenico ricorda il vezzo narrativo di “Troppo forte” dove la moto (e i motoristi) dava un barlume di speranza al sogno del cinema, qui invece da il segnale preciso di un arrivo da non mancare, quello della fine di un avveduto sogno e di un film da girare con poca gloria. Mentre Fulvio arriva con un auto di mini ordinanza e Domenico soccorre l’inquadratura fissa dietro ad uno schermo vuoto e senza cornice (un fermo immagine da rara efficacia e di esplicita avvedutezza del percorso del regista: dal menestrello burino di borgata al commisero papà divorziato che ritorna dal mondo di ieri). Dopo oltre venticinque anni il fermo immagine sta aspettando la moto di Ulisse che si era perso nel groviglio fantasioso del cinema (di sponda) dei padri e trova la vista di una ripresa (con un casco da togliere) senza più la fascia da guascone-bullo e romanaccio di ieri. I tempi passano e gli anni assalgono una storia nata ieri e ripresa con le viltà e insulsaggini moderne. Le case che non si vedono e la vita che può cambiare di botto: d’altronde con il frigo vuoto dire che ‘se magna’ è una vittoria e per di più arrendersi all’evidenza anche se si va a casa della ‘rompi-malata’ Gloria (Micaela Ramazzotti), cardiologa ansiogena e ‘mettiunaseraacena’. Sì gli sfigati quarantenni-cinquantenni (in realtà Verdone ha superata i sessanta… ma va bene…chi sa…) senza arte né parte si ritrovano a menarsi per una lasagna il problema è ben altro e le sottili educazioni vanno a farsi benedire. Mentre guardavo la scenetta (quasi retrospettiva) degli amici di Gloria (una buzzicona, una leccona, un ritardato, e…) mi veniva in mente il quadro silenzioso (tra seduti in un divano) di “Ecce bombo” (1978) di Nanni Moretti con le dovute differenze: lì il silenzio partoriva idee sconfitte (nel durante), qui il silenzio partorisce il vuoto delle idee (nel nulla presemte). E sì che il gioco di scambio in Moretti faceva venire il sobbalzo dell’animo, in Verdone lo scambio di fiati e (finti) afflati scardinano il lezioso spargimento dell’homo sapiens (moderno) (re –come Re-) incretinito (oh…che bello sarebbe l’aiuto di un’escursus sul cretino e sua prevalenza…ma basta –ri-leggere Fruttero & Lucentini anche quello in’sintesi’).
    Da leccarsi le labbra la scena della rapina (quando le cose si mettono male è un appiglio da considerare per i tre tristi coinquilini). Ulisse e Fulvio aspettano: la luce accesa è giusta ma la finestra del primo piano è quella sbagliata; altro che gioielli e ori (da super valuta) ma un paio di contenitori con bottoni e rimusagli di cuciti: i due vecchietti, il nascondiglio, uno starnuto e l’armadio che cade sono un bel vedere e un ridere sincero ma gli scanzonati amici non si trovano in un contesto di poveri di fame ma in un concertino di pestanti caciaroni disperati e diffamati. Una ruberia di lusso che si perde per sbaglio mentre l’amico Domenico si sta dando da fare per intrattenere la ricca signora con passioni amorevoli e voglie degradate: il gioco del frustino è sì da fare ma forse (senza forse) è troppo lungo e i sussurri di piacere rovinano un gustoso siparietto (perché mai dare il tutto e i suoi burini modi a Marco Giallini che si compiace molto e alla fine eccede dove non serve..e così che Verdone passa la palla al suo amico che in parte rovina la trovata). Siamo nei modi de “I soliti ignoti”: lo stile italiota esce sempre fuori. Ma un conto è sorridere amaramente di quello che il dopoguerra aveva lasciato e un conto è macchiarsi di polverina da gratta e vinci e irridere quello che si è perso (una certa dignità che Ulisse si ostina orgogliosamente a difendere fino a cedere senza sconti..).Un raschiare il barile oltre al dovuto: fa tenerezza il modo di rappresentarsi ma poi tutto scade in miserie di scrittura.
    E qui il discorso arriva alla sceneggiatura: il buon Verdone si è fatto sempre aiutare nel passato dal duo Benvenuti-De Bernardi, l’ultima grande coppia della grande commedia (e non solo). L’ultimo colpo d’ala l’avevano firmato col regista romano ne i “Viaggi di nozze” (1995) e si è visto un certo resto dei personaggi che il comico poteva interpretare. Poi De Bernardi ha aiutato l’attore ne “Ma che colpa abbiamo noi” (2003) e in “Grande, grosso e Verdone” (2008), ultimo rimasuglio di certi visi e corpi (oramai abitudini cliché del romano) e di una certa risata (non certo grassa ma a grana facile e di corta gittata). Rivedere un film di Verdone è come prendere un’aspirina (ti fa bene per disintossicarti ma certo non ne puoi esagerare oltre misura): nelle ultime pellicole si avverte una certa stanchezza di scrittura e una rappresentazione non sempre omogenea e compatta. E’ pur vero che il set strutturato bene non è stato mai il piatto forte del regista ma la sua verve e i suoi personaggi riempivano lo schermo oltre misura e catalogavano il film in ‘bello’ pur mancando qualcosa. Il Verdone scoppiettante e nevrotico non può esistere più (data l’età) ed ecco allora che l’attore romano si inventa qualcuno attorno a sé (è il caso di Silvio Muccino ne “Il mio miglior nemico” del 2006 –non certo un attore a tutto tondo-), delle rimpatriate di se stesso (“Grande. Grosso e Verdone” del 2008) o dei riferimenti sociali con vestimenti talari (“Io, loro e Lara” del 2010 dove cerca disperatamente di chiudere il suo cerchio col passato). In quest’ultima pellicola resta in disparte nello schema narrativo dando il versaccio romano all’amico Marco Giallini che crede di essere la spalla di tutto e il meglio del cinema de borgata (tra se e ma il rude commissario Giraldi interpretato in più pellicole da Thomas Milian lascia una malinconia trucida e spudorata in un cestino di vuoti di testa e di attori scapestrati!). Pure vero che il convento passa ….quello che prendiamo.
    Resta un po’ scontata la parte finale: senza scoppi alcuni si arriva ad un ‘accordo’ tra padre e figlia (mentre la madre canta ancora nei piano bar e viene lasciata al palo –quello veroì- con un’affermazione lapidaria di Ulisse: “…tu come cantante non valevi un cazzo…!”.) sulla maternità fino ad un segno di pace col fidanzato francese. E qui la solita dritta genitoriale… mentre lo stesso si consola con la Gloria cardiologa. Il finale parigino è un po’ cartolina-turistica: mentre Ulisse scende dal taxi e paga si ha la sensazione di pensare ad un altro film (un albergo vicino e “Frantic” si snoda con nascondimenti e fughe: altra cosa la mano di chi non c’è).
    Certo discostarsi da certe pellicole commediarole di oggi per Verdone è oltremodo semplice, ma non basta per spulciare gli altri e girare un film più del dignitoso (in ogni caso la Banca di Vicenza fa la su bella figura come sponsor della pellicola e i De Laurentiis non marchiano il solito cinepanettone insulso).
    La messa in scena è uno degli aspetti della pellicola (e di altre pellicole verdoniane): non basta la presenza teatrale (la migliore si spera) ci vuole ben altro per rimarcare le immagini di un film (con fotografia e musiche).
    Cast: Carlo Verdone bravo (per lui ci vuole poco); Pierfrancesco Favino convincente e teatrale; Marco Giallini esagera ma si bautocelebra: Micaela Ramazzotti vuole fare la girl bella e commediante: ci riesce in parte (il verso e lo struscio della Monica Vitti è di tutt’altra pasta).
    Regia discreta: automatica e di routine.
    Voto: 6+ (per una serata di facile fruizione).

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