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Posti in piedi in paradiso

Regia di Carlo Verdone vedi scheda film

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La recensione su Posti in piedi in paradiso

di LorCio
7 stelle

Sarebbe forse ora di riconoscere a Carlo Verdone lo status di autore che spesso si nega agli autori italiani di commedia. Anche perché, attualmente, è il più competente, attento ed affidabile commediante (in una concezione ampia e stratificata del termine, ben lontana da comico, che è un’altra cosa) in circolazione, in grado di dire qualcosa ogni volta decida di costruire un film. Come il suo padre putativo Alberto Sordi in piena mezz’età, con il quale in verità ha poco da spartire da un punto di vista squisitamente cinematografico, Verdone prende spunto da un argomento inconsueto (si possono dire molte cose negative sulle regie, sulle opinioni e sulle realizzazioni di Sordi, ma non che ignorasse temi come la malagiustizia, il commercio delle armi, la tecnologia, il femminismo e via discorrendo) proponendo la propria versione dei fatti, o almeno la propria idea in merito.

 

Non fa eccezione questo Posti in piedi in paradiso, coerente tappa del percorso dell’attore e regista romano, che si assesta sullo stesso buon livello delle più recenti opere del Verdone post cinese in coma (spartiacque vero e proprio): aggiorna temi a lui cari, specie in quest’ultima fase (le famiglie disfunzionali, il rapporto problematico tra padri e figli, l’amoralità di fondo della nostra società contemporanea), e mette su, con l’aiuto del fido Pasquale Plastino e della new entry Maruska Albertazzi (e la mano femminile si sente), una grande commedia amara e cialtrona, esilarante ed antica, che recupera l’elemento fondamentale del romanzo picaresco e di certa commedia dell’arte (la fame) in quanto collante delle miserie umane di questo duemila disastrato come i suoi abitanti.

 

È una fame concreta perché i tre disgraziati protagonisti non c’hanno più un euro (crisi nel lavoro, corna, divorzi con relativi alimenti…) e hanno l’esigenza reale di mangiare, ma anche una fame economica (i gratta e vinci di Domenico) e professionale (il critico cinematografico Fulvio retrocesso alla cronaca rosa), e soprattutto una fame di presente, con il quale non ci si riesce a connettere perché i tempi sono cambiati (il negozio vintage con cimeli di rockstar gestito da Ulisse).

 

È anche, o forse soprattutto, il ritratto di una generazione che, quanto quasi il trio di quarant’anni fa di C’eravamo tanto amati, ha fatto veramente schifo (per usare le parole che in quel capolavoro usava Vittorio Gassman), che non è stata capace né di crescere i propri figli (lasciati alle madri) né di credere fino in fondo in se stessi. Verdone rappresenta lo stato di un fallimento che riguarda specialmente Ulisse e Domenico più che Fulvio, più giovane di qualche anno (e si vede: ha una consapevolezza culturale diversa, un diverso modo di concepire il circostante e ambizioni diverse), e sebbene non abbia il coraggio (la voglia, l’intenzione?) di condannare fino in fondo i suoi personaggi (a cui vuole irrimediabilmente bene), trova una quadra finale che non è soltanto ottimistica (il futuro non è ancora passato) ma anche necessaria per gettare le basi del futuro stesso. Il quale è incarnato dai figli, che stanno diventando genitori, e che sanno bene che avranno meno di quanto i loro genitori hanno avuto alla loro età.

 

E c’è una figura intermedia, un’altra povera crista, che ha le fattezze di una bambola ma fa la cardiologa, in piena crisi con i propri sentimenti, ma comunque incapace effettivamente di mollare tutto, nonostante le delusioni d’amore (o di qualcosa che ci somigliava): che sia lei la salvezza, nel suo candore ingenuo ma non sciocco in un tempo dominato dal calcolo ad ogni costo, non a caso esperta di questioni di cuore? La interpreta, con sano buonumore, l’ottima Micaela Ramazzotti (da inserire in una particolare galleria di ritratti femminili verdoni ani che comprende anche l’Ornella Muti di Io e mia sorella o la Claudia Gerini di Sono pazzo di Iris Blond, giusto per far due nomi) che ha anche la funzione narrativa di conferire nuova linfa al maschio Verdone, ormai sessantenne: in realtà poi il rapporto sfocia in un tipo di affetto che raramente capita di vedere un film italiano (anche perché non consumano mai).

 

Lo stesso Verdone, poi, è diventato un classico: difficile trovare un difetto anche minimo nella sua recitazione così personale ed intimistica (per quanto mi riguarda lo trovo spassoso quando fa competenti riferimenti medici), qui tra l’altro tenuta molto pacata. Pacatezza forse inevitabile per non sovraccarica un trio maschile che comprende due attori che incarnano due caratteri importanti. Da una parte un gustoso Pierfrancesco Favino nei panni del complesso critico a volte laido e a volte dolce, ricco di sfumature e sorprendentemente sfaccettato, con un notevole pezzo da metacinema che coinvolge il suo amico Gabriele Muccino (stoccata di Verdone che ridicolizza tutte le attricette che sognano di lavorare col regista de L’ultimo bacio).

 

E dall’altra c’è un mastodontico Marco Giallini, grandissimo pezzente che ricorda il Franco Fabrizi dei tempi che furono (con ciniche spruzzate di Gassman), un rigurgito degli anni ottanta che s’è mangiato tutto scommettendo su qualunque cosa (pure sui cani) e mantenendo più famiglie, che si fa la lampada nel bagno di casa e il battone nel letto delle signore attempate: per capirne la bravura, guardate come mangia le patatine alla festa in casa della Ramazzotti. Dategli un premio.

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