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Cesare deve morire

Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film

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La recensione su Cesare deve morire

di giancarlo visitilli
8 stelle

Certo, abituati ai cattivi provini che si svolgono ovunque, per il piccolo e il grande schermo, trovarsi dinanzi a quelli di detenuti che, senza mai alzare lo sguardo in camera, si raccontano e vomitano tutta la loro interiorità e rabbia, destabilizza e fa star male, da subito, qualunque spettatore. Poi, ci si ricorda che dall’altra parte della macchina da presa ci sono due grandissimi uomini, eccellenti cineasti, Paolo e Vittorio Taviani, vincitori dell’Orso d’oro all’ultimo Festival di Berlino. 

Il tutto si svolge nel teatro del carcere di Rebibbia. Ci si appresta alla rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare, di cui vediamo subito l’esito con gli attori sul palco, commossi e felici, fra gli applausi del pubblico in sala. Tutto dura poco, perché le luci si abbassano sugli attori e questi tornano ad essere gli uomini di ogni giorno, scortati e rinchiusi, carcerati.

Sei mesi prima il direttore del carcere e un regista teatrale illustrano ai detenuti il progetto del Giulio Cesare. E’ allora che cominciano i provini, poi l’incontro con il testo che, nonostante sia di un bel po’ di secoli prima, impressiona, perché il linguaggio di Shakespeare é universale, aiuta gli attori e gli spettatori ad immedesimarsi nei personaggi dell’opera: sembra di toccarli, incontrarli, comunicare con loro, fino ad inquietarsi finanche con gli stessi. Facile fare paragoni, abbastanza scontati. E la preparazione dello spettacolo si carica di speranze, ansie, incubi: chi è Giovanni che interpreta Cesare? Chi è Salvatore/Bruto? Perché sono stati condannati? E’ in essere che si crea, quindi, una sorta di verità/finzione, sogno/realtà, fra quello che appare, si vede e quello che ognuno degli attori, in realtà, vive, anche nella solitudine di due metri per due.

Nel film anche l’elemento linguistico è fondamentale, si tratta di un crogiolo di dialetti, quelli del Nord, insieme a quelli del Sud, scanditi in un luogo-non luogo, in cui anche il colore quasi sbiadisce, vi é solo un iniziale accenno nel film, in realtà, tutto il racconto, poi, in flashback è in bianco e nero.

Il film dei fratelli Taviani è bello, densissimo di emozioni. E’ un film in cui più che la ricerca della storia, vi è la descrizione di come può nascere ed essere messa in scena una storia. Il livello interpretativo dei diversi detenuti è altissimo, fatto di mimiche e sguardi, che neanche nei migliori studi o accademie è possibile imparare: son cose che o possiedi e vivi, altrimenti risultano pura finzione (come in molto cinema, italiano soprattutto).

Paolo e Vittorio Taviani sono l’eredità di quel che resta di un cinema antico ma anche nuovo, in cui il sociale fa coppia con la poesia, il teatro, il dramma e il documentario si fondono. La gioia dell’arte si fa dolore, come afferma Cassio/Cosimo Rega: “Da quando ho conosciuto l’arte ‘sta cella è diventata una prigione”. Questa volta con lo sguardo in camera. E non c’è nulla che trattenga l’emozione.

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