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Diaz

Regia di Daniele Vicari vedi scheda film

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La recensione su Diaz

di ROTOTOM
8 stelle

Nel parlare di Diaz di Daniele Vicari premiato al Festival di Berlino con il 2° Premio del pubblico, si rischia di dimenticare il film a vantaggio del tema.  Diaz comincia dove era finito A.C.A.B. di Stefano Sollima, robustissimo thriller metropolitano che insieme a Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana  rappresenta degnamente una stagione in cui il ritorno al cinema d’impegno politico e di inchiesta non va giudicato singolarmente ma visto come un “tutto” che muove le coscienze verso un’univoca direzione. I celerini neri di A.C.A.B. finivano a impugnare i manganelli – i tonfa – contro ombre minacciose in piazza Diaz a Roma, un nome che in cuor loro evocava il ricordo di “una grande cazzata” come la definisce Marco Giallini – superba faccia di genere – durante le scorribande notturne nel difendere la nazione da immigrati e altri poveracci.  Viene mostrata dall’interno un’ideologia sconsiderata maturata attraverso la frustrazione comune e generalizzata della perdita di diritti e della rimozione dei doveri che è tipica di un ventennio durante il quale la nazione ha vissuto inghiottita in un grande equivoco.
Se A.C.A.B. è un thriller, Diaz è un film dell’orrore. Durante il G8 di Genova nel luglio del 2001, un gruppo di ragazzi sceglie un “manufatto”  per passarvi la notte e viene aggredito da un branco di violenti senza volto che li massacrano senza motivo. C’è il tema dell’assedio, il sangue, l’orrore,  la paura, la notte, l’isolamento e l’umiliazione. Non è tanto distante per furore e violenza grottesca  a La casa di Sam Raimi o ad un Distretto 13 de noantri, ma senza la loro ironia, putroppo. Il “manufatto” è una scuola, la Armando Diaz di Genova che in tempo di assedio nel gergo procedurale poliziottesco perde sostanza, si svuota della funzione che viene esercitata al suo interno rimanendo isolata nell’inerte, ridicola definizione di un mero dato di fatto: l’edificio è un manufatto, su questo non ci piove e verso un manufatto non si prova nessuna empatia. Verso una scuola, istituzione delegata all’educazione e all’istruzione, palestra –ipotetica – dell’esercizio dei diritti e doveri del cittadino, forse si.
La cronaca di una notte di ordinaria follia, la “grande cazzata” che trasformò la scuola in “macelleria messicana”, è ricostruita con la pazienza del documentarista e esposta con rabbia propria del cinema di genere. Un film molto forte, Diaz, che non fa sconti ne’ alle due fazioni in contrapposizione, manifestanti e poliziotti, ne’ alla radicale messa in scena che non risparmia nulla dal punto di vista visivo. Immagini di repertorio filmate dagli stessi ragazzi assediati e poi  arrestati, si fondono con la ricostruzione dalla regia nervosa di Vicari.  Camera a mano, montaggio che si affida a flashback seguendo tre personaggi, un giornalista, una volontaria tedesca e un anziano sindacalista, nella loro casuale discesa all’inferno. Mai elevati a veri e propri protagonisti, piuttosto simboli di un atto di violenza inaudita che non ha precedenti.  Ha precedenti il tentativo, goffo, anacronistico, di farsi beffe dell’opinione pubblica da parte dei vertici della polizia. Chi di media ferisce di media perisce, la conferenza stampa, le dichiarazioni e le prove vengono sistematicamente smentite dall’oggettività della ripresa amatoriale degli assediati. Bloccati nella storica consuetudine dell’impunibilità, lo sbugiardamento è avvenuto proprio per opera dei filmati presi con quella tecnologia che  già nel 2001 cominciava a cambiare radicalmente il modo di fruire delle notizie.  In quella contestazione no global,  la globalizzazione dell’informazione è quella che ha consentito di risalire alla verità, quella forza che nei successivi 10 anni è diventato l’unico vero strumento per raggiungere la verità senza filtri censori.  Una verità non univoca però quella di Vicari , Diaz è un’opera su un fatto capitato nel contesto di una guerriglia e il regista  non si nasconde dietro il pietismo.  Mostra in egual misura le devastazioni della città di Genova e ciò che ha portato un drappello di padri di famiglia ad indossare il casco ed estrarre  il tonfa e massacrare di botte più di 70 persone innocenti. O meglio, che con i manifestanti violenti, i black block non c’entravano proprio nulla.  Così se da un lato non sono approfonditi i caratteri dei protagonisti preferendo la cacofonia di facce e lingue  e solo sbrigativamente vengono ricondotte alla memoria le vicende della morte di Carlo Giuliani, dall’altro il concentrarsi sul fatto della Diaz rende il tutto emotivamente devastante.
Film possente ed emozionante, senza dubbio uno dei migliori dell’anno e sul quale ricadrà la retorica faziosa delle parti in causa. Cinema politico, cinema impegnato e civile, come – fortunatamente – sempre più spesso e sempre meglio viene proposto ma senza i piagnistei e gli inchini alle parti di potere interessate. Diaz è un film potentissimo che richiama il cinema di genere e si concentra soprattutto sugli effetti, la tensione che si accumula ed esplode nel lunghissimo, insostenibile assedio alla scuola. Mostra le facce – abbiamo ancora facce da genere, se Dio vuole -  e condanna le ombre senza volto, gli alieni blu che irrompono nel “manufatto” mostrandone gli effetti al loro passaggio.  Il sangue sui muri, i denti per terra, i corpi martoriati. I suoni, le urla, i tonfi del tonfa  sui corpi a terra, gli echi dei pianti, la consapevolezza di  assistere ad un pezzo di storia – un altro – oscuro e mostruoso, rimane nella mente nei giorni a venire.  Così come si esce dalla sala un po’ storditi ai pochi cartelli che a fine film chiudono la storia nella completa assoluzione, derubricazione, prescrizione del delitto commesso. Intanto però quell’eco rimane e nessuno pulirà via quel  sangue che è stato filmato ratificando come la  necessità del vedere sia l’unico approdo al rispetto dei diritti e della verità. 

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