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Cavalli

Regia di Michele Rho vedi scheda film

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La recensione su Cavalli

di LorCio
6 stelle

Può un’opera prima essere al contempo robusta ed ingenua? Evidentemente sì. L’esordio di Michele Rho, nato sotto l’egida di Gianluca Arcopinto, spicca nel panorama nostrano recente per una scelta orgogliosamente conservatrice: il rifiuto della modernità tecnologica, del progressismo tecnico e della frenesia del presente in favore di una storia antica, epica (nei limiti possibili) e rustica. I modelli sono individuabili in un certo filone della cinematografia italiana: il Giuseppe De Santis di Non c’è pace tra gli ulivi e Uomini e lupi, il Pietro Germi del post neorealismo, l’Alberto Lattuada de Il bandito.

 

Rho, con un’umiltà ammirevole e una sobrietà discreta, non gioca a fare l’autore, ma si presenta al pubblico come un artigiano dell’immagine pronto ad offrirci un cinema diverso che si rinnova nella nostra tradizione più dimenticata. È vero che la prima sequenza, la battaglia con gli slittini nel bosco, è un completo virtuosismo grazie a cui Rho colpisce per vivacità e al contempo misura.

 

Poi l’azione si rallenta, con i severi ritratti famigliari dominati dal tirannico padre di Cesare Apolito, ma finché il film è in mano ai due bambini (Luigi e Francesco Fedele: grandi facce) fila via che è una bellezza, raggiungendo una specie di equilibrio tra le esigenze del film per ragazzi (è il racconto di una formazione coatta e volenterosa vissuta assieme ai due cavalli che il padre ha dato loro con la terribile frase “ora nessuno si occuperà più di voi: voi vi occuperete di voi”) e quelle del film, per così dire, per adulti (la complessità del personaggio di Duccio Camerini, prima violento e poi paterno).

 

Poi i due bambini escono di scena e passiamo ad una decina di anni dopo. A questo punto la storia si fa vagamente più convenzionale, con le due strade differenti battute dai fratelli: Vinicio Marchioni è un affezionato dei bordelli, ama i vestiti su misura ed ha come unico obiettivo quello di raggiungere la vetta della montagna più alta; Michele Alhaique continua ad allevare cavalli con una passione che sfocia nella devozione. E qui, quando il racconto li coglie nella maturità, ecco che spuntano gli evidenti problemi.

 

Nella seconda parte il film gira a vuoto, non riesce a trovare una sua strada (ci si smarrisce tra le pulsioni erotiche di Alhaique e i tormenti interiori di Marchioni senza mai andare fino in fondo), abbonda in ellissi narrative che ti fanno sorgere un’innocente domanda nei pressi del finale: e poi? Cavalli ha una corazza robusta per almeno metà film, ma poi manifesta la sua fragilità di fondo, probabilmente derivata dal fatto che trattasi di un esordio (e ci sta che un esordio abbia difetti di forma nel manico).

 

Ma, senza essere catastrofisti, mettiamo in chiaro che la prima parte del film ha un afflato da western intimo che raramente ci è capitato di vedere ultimamente, e i paesaggi appenninici deserti e rigogliosi, impervi e sterminati suggeriscono proprio quest’idea epica di fondo molto interessante (la splendida fotografia artistica e è di Andrea Locatelli). Peccato per il resto, ma tant’è. Ben recitato, specialmente da Antonella Attili come dolce moglie di Camerini, con tre cammeoni notevoli: la madre straziante di Asia Argento, l’allevatore di Andrea Occhipinti (anche coproduttore) e il cattivissimo e violento mandriano tratteggiato in due scene da un mostruoso Pippo Delbono.

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