Regia di Jan Svankmajer vedi scheda film
L’astrattismo cinematografico di Jan Svankmajer presenta, in questa danza di sassi colorati, i meccanismi della vita ridotti in una versione essenziale e schematica, fatta di strutture geometriche elementari (cerchi e linee, simmetrie assiali, rotazioni) e di processi ciclici, scanditi dal ritmo delle lancette e della melodia prodotta dal rullo di un carillon. Le dinamiche fondamentali di riproduzione, moltiplicazione, divisione e differenziazione sono descritte dai successivi movimenti di questa composizione coreografica, i cui personaggi – pietre bianche, nere e rosse – diventano, gradualmente, da protagonisti ripresi in primo piano (come le cellule di un protozoo, o gli ovociti prima della fecondazione) elementi di organismi via via più complessi, rispetto ai quali diventano componenti sempre più piccole (gambe e braccia, singole ossa, particelle di pelle). Ma se la prima fase dell’evoluzione comporta una crescita quantitativa e qualitativa della natura, che diventa sempre più ricca di forme e funzioni, ad un certo punto il processo imbocca la parabola discendente, quando il mondo (rappresentato da un secchio di latta appeso ad un orologio a pendolo) risulta sovraccarico. In quel momento gli esseri viventi iniziano a schiacciarsi e a frantumarsi per effetto del loro stesso peso, fino a che è il contenitore stesso a cedere. La fine che sopraggiunge in conseguenza di un eccesso è la visione escatologica dominante nella filmografia di Svankmajer: l’universo è animato da un flusso inarrestabile di metamorfosi, che hanno origine da tante diverse primitive forme di voracità, tutte simboleggiate dal costante riferimento agli esseri che si fagocitano a vicenda, per poi risorgere in una nuova veste. Il ciclo si arresta solo quando il caos e l’assurdo prendono il sopravvento, livellando il cosmo nell’eterna uniformità della morte per entropia.
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