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Il rosso e il blu

Regia di Giuseppe Piccioni vedi scheda film

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La recensione su Il rosso e il blu

di LorCio
6 stelle

C’è una sola vera ragione per vedere Il rosso e il blu, al di là del fatto che tutti i film vanno visti per essere giudicati. La vera ragione si chiama Roberto Herlitzka. Già altre volte mi è capitato di tessere le lodi di colui che è probabilmente il miglior attore italiano vivente, ma ogni volta che me lo trovo davanti non posso esimermi dal celebrarlo nuovamente. In questo caso, Herlitzka veste i panni del professor Fiorito, un vecchio docente di storia dell’arte cinico ed arrogante, disilluso e vagamente depresso, che tratta i propri alunni senza alcun ritegno, fuma in classe e ha perso qualunque speranza nei confronti del mondo.

 

Si potrebbero citare tutte (ma tutte) le battute che escono dalla bocca di Fiorito perché sono una sintesi di dura verità e arido sarcasmo, simpatico disprezzo e crudele sconforto, schietta ambiguità e celata nostalgia. E questo è certamente un merito della sceneggiatura di Giuseppe Piccioni, Francesca Manieri e Marco Lodoli (autore del libro omonimo a cui il film si ispira – per inciso, libro interessantissimo), che azzecca veramente solo il personaggio di Fiorito e qualche altra cosa (ci tornerò dopo). Ma più della parola scritta, c’è la parola che si fa carne. Oltre la parola, c’è il senso, quel senso che il professor Fiorito non vuole più insegnare perché ha capito che nessuno è più interessato a capire cosa ci sia dietro le cose.

 

Tanto vale cercare di farsi coinvolgere dalla superficie, che sia la stupida battuta di un alunno buffone (il “geniale” Ciacca che si chiede se Piero Della Francesca sia stato uomo o donna: l’incontro col padre è irresistibile) o l’intrattenimento sessuale con una meretrice. Ma sotto la superficie c’è sempre qualcosa. Quando recita tutto d’un fiato il Pianto Antico di Carducci, la cantilena d’altri tempi si trasforma in intonazione tragica, oltre le parole ci sono i sentimenti repressi e le delusioni accumulate, al di là della ramanzina consueta al giovane collega idealista c’è la consapevolezza della necessità di lasciare il testimone. Perché, sì, la scuola farà sempre più schifo e i giovani con un sogno andranno dissuasi sempre di più, ma è più forte la speranza, per quanto misera, della resa incondizionata.

 

Non è un caso che è il personaggio a cui è concessa la vera seconda chance, nonostante il fantasma di una presunta fine vicina: e d’improvviso lo stereotipo dell’insegnante stronzo durante l’anno che ti promuove a fine anno per non avere rogne (tanto ci ha già rovinato abbondantemente – o almeno così crede) muta nell’idea dell’insegnante che ti appassiona, delle cui lezioni non devi prendere appunti perché tutto ti resta nella memoria. Nel delineare questo personaggio meraviglioso (che per almeno metà del film ha il compito di narrare e commentare fuori campo), Roberto Herlitzka è straordinario nell’enorme gamma di espressioni e suggestioni messe in scena con discreta meostosità e permette al film di raggiungere picchi elevatissimi.

 

Già, perché (e qui torniamo sulla terra) fondamentalmente è un film che non decolla mai. Lo stile (o la tendenza) del cinema di Giuseppe Piccioni è quello di suggerire allo spettatore ciò che altrove viene urlato, di limitare gli eccessi lasciandoli covare dentro i corpi dei suoi personaggi in crisi, di evitare le esplosioni preferendo l’elaborazione minimalista del trauma. È un tipo di cinema che ha creato non pochi problemi a certi esegeti degli anni novanta (il cosiddetto “due camere e cucina”), ma a cui vanno riconosciute una certa eleganza e una discrezione che non vanno confuse con la timidezza o la mancanza di ambizioni. in quasi venticinque anni di buone prestazioni, ha al suo attivo almeno un ottimo film (Fuori dal mondo) e al suo passivo un solo passo falso (l’abbastanza brutto Condannato a nozze).

 

Questo Il rosso e il blu ha una quantità di pregi pari a quella dei difetti e dei pregi che sono difetti e viceversa. Innanzitutto i tre sceneggiatori non hanno saputo calibrare le tre storie che compongono il film, non riuscendo a dosare bene gli ingredienti all’interno di una ricetta squilibrata: nella prima parte comanda Herlitzka, che fondamentalmente istrioneggia e il cui personaggio non ha comunque la statura del protagonista (si sente che ha bisogno di un altro personaggio al suo fianco, perché per quanto bello questo ritratto di professore disincantato non può reggere un film intero).

 

Nella seconda c’è più Margherita Buy (nervosa e misurata, che attenua certi eccessi che avevano nevrotizzato altre sue interpretazioni), il cui personaggio attraversa sicuramente un cambiamento (la preside in trincea che scopre di avere un animo materno troppo volontariamente represso) ma che avrebbe avuto bisogno di maggiore respiro e di meno ellissi (come dimostra il marito di Gene Gnocchi: due scene, a tavola e a letto, e vorresti sapere più di lui); e in più c’è Riccardo Scamarcio (poco in parte), l’effettivo protagonista, un po’ troppo didascalico e idealizzato, che attraversa il film senza lasciare davvero il segno forse per troppi insegnanti dello stesso genere già passati al cinema.

 

Ecco, perché l’altro grande problema del film è la mancanza di originalità: è dai tempi de La scuola (e si parla del 1995 – e che resta a tutt’oggi il miglior film di Daniele Luchetti) che tutti i film italiani sulla scuola raccontano le stesse cose, dall’agrodolce Auguri professore allo sbagliato La scuola è finita passando per il caruccio La classe non è acqua (e chi ha vissuto e vive la scuola in un certo modo sa perfettamente che sono cose vere, certo: professori frustrati o idealisti, ragazzi naturalmente sbandati o inconsapevolmente geniali, strutture fatiscenti, problemi di fuori che si riversano dentro e viceversa).

 

Per quanto non di rado stuzzichi l’interesse dello spettatore, il complesso di storie messo in campo (la ragazza che vorrebbe sedurre Scamarcio, l’ottimo studente rumeno innamorato di una svalvolata di ascendenze godardiane, l’alunno che dorme in palestra con madre assente e problemi evidenti…) sa di trito e ritrito, come se fosse stata creata per riempire vuoti e per dare un senso ad un film tutto sommato non indispensabile che poteva essere qualcosa di diverso. Ne è venuta fuori una commedia che fa sorridere (a parte Fiorito che spesso fa ridere molto) e un dramma che non commuove, una storia simpatica ma irrisolta, fluida ma evanescente, scorrevolissima ma troppo minimalista. All’interno della parca carriera di Piccioni, Il rosso e il blu non è né un passo indietro né un passo avanti: sta lì, come quei segni sulla lavagna scritti alla prima ora che a fine giornata stanno ancora lì, ma vagamente sbiaditi.

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