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Amour

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Amour

di OGM
8 stelle

Amour, con quel titolo così semplice e convenzionale, è ciò che diventa il cinema disturbante, quando decide di deporre le armi. Col tempo, anche l’eccesso si rifugia nel pudore: è la provocazione che, maturando, finisce per burlarsi delle ambizioni del mondo,  e sceglie di partire già sconfitta.  Così l’incubo epocale si trasforma in un’allucinazione privata; è la visione sfocata che accompagna l’agonia del ricordo, mentre la vita si spegne, e la sofferenza si fa reticente, ripiegando in buon ordine nella vergogna. Michael Haneke è noto per aver fatto urlare l’orrore all’interno delle pareti domestiche, negli ambienti chiusi e silenziosi, dove più forte ne rimbomba l’eco. Ma ora è giunto il momento di mettere a nudo la desolazione senza voce che si cela dietro quel clamore. È il balbettio di chi non ha più la forza per parlare. È un rantolo freddo e discontinuo, convulso come un viso contratto da una smorfia di dolore.  È il dialogo senza fiato di Georges ed Anne, una coppia di anziani coniugi che vivono, da soli, in un grande appartamento parigino. La figlia Eva vive a Londra con la sua famiglia, e a loro, del passato, rimane soltanto la passione per la musica, che entrambi hanno insegnato per tanti anni. Poi, all’improvviso, il malore di Anne, un’operazione sbagliata, un decorso progressivamente invalidante. Da quel momento lui vive solo per lei e la loro casa si chiude al mondo. Il loro legame si arricchisce di ragioni incomprensibili all’esterno, mentre si fa ermetico, disperatamente coinvolgente, ma bene attento a non dare nell’occhio. Quella misteriosa routine diviene il loro universo: una realtà a parte, da cui, con l’afasia di lei, sembrano fuggite anche le parole, e che non ammette confronti con la normalità. Inutile cercare di capire, o di discuterne. La logica ha abbandonato quel luogo, che è attraversato da momenti scollegati, col prima e il dopo che si confondono per contrastare, in un volteggio sognante, l’inarrestabile corsa verso la fine. Quegli inspiegabili frammenti sono le briciole di un’esistenza che ha perduto la sua integrità. Il senso non esiste più, e al suo posto è arrivata una sensibilità telepatica, il fondamento di un’intesa a due esclusiva e segreta, di cui nulla deve trapelare. La regia lascia fuori anche noi spettatori, che siamo gli occasionali visitatori di una casa affetta da un dramma, del quale possiamo cogliere soltanto sporadici segni. Il racconto procede per salti, perché non è un documento dal vivo, ma soltanto la fugace e superficiale testimonianza  di un processo che non può essere rivelato nella sua totalità. Solo in un particolare istante, nel finale, ci è concesso di guardare dentro quel rapporto che ha cessato di appartenere alle consuete categorie dell’esistenza (il salute/amore/lavoro/soldi degli oroscopi), per percorrere una via alternativa, avvinghiata all’essere, e libera da ogni definizione supplementare. Un registro freddo sottolinea un’essenzialità corrispondente al desiderio di estromettere, dalla riflessione, tutto ciò che non è contenuto nel noi: un pronome che è il sigillo di un ultimo capitolo destinato a rimanere indecifrabile e incompiuto. Il film si muove con passi malfermi, ma con l’animo determinato, sostenuto  dalla tragica certezza di doversi rassegnare, di dover rinunciare a sfidare qualsivoglia cosa, tranne la curiosità altrui. È un film che si incammina coscientemente dentro il buio, mentre si porta l’indice alle labbra, per esortarci a tacere. Un film che non si vuole esprimere, per non violare la sacralità di un addio. Un film nobilmente, e splendidamente, stanco.

 

Con Amour, già vincitore della Palma d’Oro allo scorso Festival di Cannes, l’Austria si candida al Premio Oscar 2013 per il migliore film straniero.

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