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J. Edgar

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su J. Edgar

di spopola
8 stelle

Su J. Edgar Hoover avevamo già disponibile la rivisitazione poco ortodossa fatta da Larry Cohen nell’ormai lontano 1978 (The Private Files of J. Edgar Hoover)da noi purtroppo mai passata sugli schermi e circolata solo in versione sottotitolata sulle pay-tv e quindi semi-sconosciuta ai più. Un film - se il ricordo non mi tradisce - fortemente penalizzato da un budget troppo limitato oltre che da molte approssimazioni e incongruenze, interessante soprattutto per la sostanziale “scorrettezza di fondo” di una sceneggiatura dello stesso Cohen che per l’epoca in cui è stata concepita, può davvero considerarsi di quelle “senza peli sulla lingua”, ma che meriterebbe di essere recuperato, anche se immagino che i segni dell’usura dovuta agli anni nel frattempo trascorsi, potrebbero essere diventati macroscopici.

Ci ha pensato comunque Clint Eastwood a colmare la lacuna con una pellicola (da me rivisitata di nuovo e con piacere proprio in questi giorni) ugualmente fuori dai “classici” schemi che di solito vengono utilizzati per questo tipo di rappresentazioni. Mi riferisco appunto a J. Edgar che alla sua uscita nel 2011 ha suscitato accese discussioni e altrettanti accaniti dibatti di contrapposizione anche ideologica, sempre inevitabili quando ci si avvicina a una figura così controversa con un approccio decisamente originale e per più di una ragione “selettivamente singolare” come quello adottato dal regista.

Devo a tale riguardo premettere che posso ascrivermi a buon diritto fra gli estimatori del regista fin dalla sua prima ormai lontana prova (Brivido nella notteuscito senza molti clamori nella stagione morta dell’estate 1971) e che del prosieguo comunque sempre interessante della sua carriera in questo campo, ho apprezzato più o meno e con pochissime riserve quasi tutto ciò che ha prodotto.  Tanto di cappello dunque per la sua figura professionale che a me risulta in antitesi persino con il suo da sempre sbandierato orientamento politico di matrice indiscutibilmente “repubblicana” e quindi molto lontano dal mio sentire, ma che a me sembra si trovi spesso (soprattutto in questo suo ultimo periodo) in evidente “rotta di collisione” con ciò che invece riesce a raccontare ed esporre sullo schermo che mi appare orientato in tutt’altra direzione (l’ho sempre considerata una specie di stratificata “schizofrenia idiosincratica”, per altro contraddetta nei fatti – e lo ribadisco - da ciò che ha prodotto nel campo delle “idee”, che probabilmente il tempo avrebbe potuto sia pure lentamente “correggere” e sanare, anche se i fatti non mi stanno dando alcun segnale in tale direzione e dicono tutt’altro). Magari non posso proprio ritenerlo una  “moral guidance” adeguata alle mie esigenze di pensiero a causa di quella dissociazione  fra “l’essere” e “il fare” che sottolineo ancora, ma mi sento ad ogni modo di poterlo collocare tranquillamente fra i “grandi nomi” della storia attuale del cinema, visto che è mia abitudine scindere le due posizioni ed esprimere un giudizio riferendomi semplicemente ai risultati artistici conseguiti (che nel suo caso sono indiscutibilmente notevoli e assoluti, decisamente più che rimarchevoli) lasciando poi a ciascuno il diritto di pensarla – politicamente parlando – come crede meglio e vuole, anche quando non mi ci riconosco proprio e mi sembra persino un oltraggio all’intelligenza. Nonostante ciò ovviamente avrei preferito che il suo incancrenito credo repubblicano, rimanesse circoscritto nel suo “privato” anziché essere di nuovo sbandierato ai quattro venti come è accaduto nell’ultima battaglia elettorale americana e devo di conseguenza ammettere che mi ha non poco disturbato non solo quella sgradevole sceneggiata pubblica della “sedia vuota” riferita a Obama che si poteva certamente risparmiare, ma anche e soprattutto l’essere venuto a conoscenza del sostegno economico elargito a piene mani al già opulento budget complessivo di quel partito così fortemente foraggiato dai magnati delle industrie delle armi, del petrolio e via discorrendo da non aver certo bisogno anche del suo contributo.

Deluso dalla persona dunque – e lo ripeto - ma non certo dall’artista verso il quale continuo ad avere immutata ammirazione.

Perché questa premessa? Semplicemente per il fatto che avendo espresso un primo positivo giudizio su J. Edgaral momento della sua programmazione in sala, tenendo conto delle accuse spesso lanciategli di eccessiva “compiacenza” verso un personaggio discusso e discutibile (uno dei veri “demoni” del ‘900 che ha tirato le fila della malversazione politica operando all’ombra del potere per condizionarne scelte e orientamenti) sentivo una impellente necessità di verificare alla luce anche dei nuovi eventi, se la mia profonda e discutibile settarietà che ben conosco fosse stata capace di generare qualche comprensibile “scompenso” fino ad aprire una crepa nella mia originaria convinzione, sufficiente a modificare l’idea che mi ero fatta verso un’opera da me valutata poco meno che eccezionale solo un anno fa (il che vi assicuro non sarebbe stato impossibile visto quanto è radicale e poco conciliante il mio atteggiamento, talmente assolutista, da avermi fatto frantumare anche per divergenze di minore rilevanza, persino qualche vecchia e consolidata amicizia).

Devo dire però che invece in questo caso nulla è cambiato e che sono rimasto della stessa positiva idea che avevo (il che mi fa ben sperare rispetto alla mia presunta intollerante faziosità, per una volta almeno scesa a più taciti compromessi di pensiero). Ripercorrendo infatti il film alla spasmodica ricerca del “pelo nell’uovo”,  e quindi con uno spirito critico decisamente amplificato, alla fine mi sono dovuto arrendere e ammettere che non ci ho riscontrato dentro nemmeno questa volta alcuna “reticenza” come invece gli è stato da più parti imputato.

Dal mio personale punto di vista quindi (al di là del più che discutibile posizionamento politico del suo autore) J. Edgar di Eastwood era e rimane una pellicola importante e da non mettere assolutamente in discussione, perfettamente omogenea insomma (persino conseguente, mi verrebbe da osservare) pur se non completamente “in linea”, con la sua galleria di celluloide composta in gran parte da eroi indiscutibilmente “conservatori” talora al limite del reazionario, ma sostenuti da una fede incrollabile fondata sull’importanza dell’onestà (invero poco “certa” nel caso in oggetto) e sul patriottismo, ma in fondo talmente aperti da diventare alla fine feroci paladini della giustizia e capaci di  conseguenza di scelte molto coraggiose persino in antitesi con i propri principi di partenza.

Io credo dunque che ci sia voluto molto coraggio da parte sua nel decidere di rinunciare alla “beatificazione” per esplorare invece da vicino, magari con uno sguardo solo un po’ più neutrale del dovuto, il misto di menzogne e mistificazioni della per più di un verso “miserevole” (passatemi il termine) vita di un esecrabile uomo come questo, addirittura incapace di accettare la “verità” identificativa della sua esistenza persino nel privato, e farne uscire fuori un film denso e stratificato,  ma destinato inesorabilmente a subire l’ostracismo di più che prevedibili critiche per le evidenti “lacune omissive” (giustificabili – tali riserve - sono se non si intende tener minimante conto di quelle che sono state le ragioni primarie, gli stimoli, che hanno spinto il regista a confrontarsi con la sfaccettata fisionomia di Hoover, a mio personale avviso già pienamente individuabili fin dalla scelta operata per la definizione del titolo, una dichiarazione di intenti che parte proprio dalla cancellazione sistematica di quel cognome “ingombrante” per avere così la libertà di  impostare il racconto di un uomo pubblico di siffatta rilevanza, seguendolo soprattutto nel suo ambiguo e castrante privato, fondato – e lo ripeto - sulla incapacità di accettare se stesso per come era davvero e di essere un po’ più compassionevole verso le proprie “debolezze” anche sessuali, con la terribile conseguenza di aver trasformato il tutto in una vera e propria tragedia personale oltre che sociale e politica).

Accennavo dunque prima al fatto che io non ho ravvisato “reticenze” nel racconto, e lo riconfermo, poiché tutto ciò che ci viene qui rappresentato, non solo lo trovo conseguente all’impostazione generale dell’opera, ma anche e soprattutto perché poi, nel percorso, ci sono scarti e “mutazioni” che ne “esternizzano” lo sguardo spostando su altri personaggi il punto di osservazione  (ci ritornerò in seguito su questo argomento), pur restando preponderante  e prioritario quello del protagonista (compreso la sua visione opaca delle cose ossessivamente segnata da complotti presunti o reali e popolata da nemici da cui difendersi a qualunque costo) che “tecnicamente” si esemplifica nella necessità primaria che proprio Hoover ha di tramandare ai posteri le memorie narrando in prima persona le sue gesta “e farsi bello”. Una modalità che in mano ad altri si sarebbe pericolosamente spinta verso l’agiografia, ma che qui diventa invece lo straordinario mezzo traslativo necessario per fare “sintesi”, ribaltando spesso i contenuti e le prospettive per mettere impudicamente a nudo la cruda verità, con una abilità davvero sorprendente capace di far passare la parabola politica e sociale di un intero paese (gli Stati Uniti d’America) attraverso il setaccio a maglie strette di una vicenda assolutamente personale e privata che ne diventa lo specchio reale e non distorto particolarmente indicato per indurci a riflettere e meditare sui meccanismi oscuri del potere.

 

Il modo con cui Clint Eastwood procede nell’impostare il racconto che ripercorre questa vita, “speciale” per più di una ragione, almeno in apparenza non risulta essere nuovo nella filmografia del regista. Sembra infatti rifarsi a quello già da lui utilizzato per un altro percorso biografico, quello dedicato al grande Charlie Parker, l’inventore del be-bop (Bird, 1988).

Entrambe le pellicole sono infatti organizzate ricorrendo a un incessante mosaico di flashback  utilizzati come incastri connettivi nei suoi costanti, progressivi andirivieni temporali fatti di scarti e di ritorni “associativi” del pensiero.

Niente di sorprendentemente innovativo si potrebbe dire allora, non solo nella storia del regista, ma anche in quella più generalizzata del cinema in senso lato. Se osserviamo però meglio e più da vicino le cose, rileveremo che invece le differenze non solo del metodo di approccio, ma anche del risultato pratico, sono decisamente rilevanti, poiché il regista “muta” questa volta la forma del procedimento adattandola all’idea che ha del personaggio, così che possa collimare con quella che si potrà poi fare anche lo spettatore.

Dal confronto, risulterà evidente infatti che quel montaggio sincopato, quell’andirivieni anche temporale, era utilizzato in Birdprincipalmente con l’intento di creare una forte empatia con Parker, (per questo gli “sbalzi”, gli slittamenti, avevano un andamento assolutamente coerente e quasi “musicale”, costruiti e orchestrati sui tempi emozionali della colonna sonora e delle sue variazioni fatte di ellissi e di “assoli” strumentali), mentre invece in questa sua ultima fatica diventa una forma volutamente disconnessa, frammentata, disarticolata e soprattutto scostante (quasi destrutturante) nella sua mancanza di “pietas”, perfetta per riproporre sullo schermo, ricostruita a incastri e brandelli, l’inafferrabile dimensione di un personaggio antipatico e anaffettivo quale  era certamente Hoover nella vita, e dove anche i sommovimenti temporali sono fatti più di dissonanze che di assonanze nel riprodurre l’interiore, costante arrovellarsi  (quasi il macerarsi) di un uomo insoddisfatto, paranoico, che utilizza il suo potere mistificatorio anche quando detta le sue memorie, poiché proprio attraverso quelle vorrebbe provare a controllare ciò che non gli appartiene più: il suo passato. (Alberto Pezzotta).

La novità – se tale la vogliamo considerare - riguarda semmai molto di più il ritmo “sobbalzante” imposto al soggetto e il modo in cui è stato deciso di organizzarlo anche visivamente (o meglio ancora sta nella modalità con cui Eastwood - sulla base dell’ottima sceneggiatura di Dustin Lance Black – prova a  posare il suo sguardo su J. Edgar per rapportarsi ad esso).

La sceneggiatura è altrettanto fondamentale in questo caso, e anche per il suo estensore si potrebbe parlare di “precedenti analogie”, poiché l’impostazione come schema generale, non è poi molto distante da quella da lui utilizzata per Milko per Pedro. Si  modifica però sostanzialmente nel fatto che questa volta  “documenta e basta”, non esprime un giudizio oggettivo di merito, né tantomeno pigia il pedale sulla partecipazione emotiva. Lancia però molti stimoli che lasciano comunque allo spettatore una assoluta, inedita e straordinaria libertà di “opinione”, e questo attraverso un procedimento narrativo tutto in sottrazione, totalmente divergente da ogni possibile, tradizionale e pedissequo itinerario seguito nei “biopic” più convenzionali: nessun “santino celebrativo” insomma, ma nemmeno un percorso inverso di revisionismo critico ugualmente consunto ed abusato in presenza di personaggi così discussi e discutibili. La figura tanto contraddittoria di Hoover ci viene infatti riproposta con un racconto in cui le posizioni risultano molto sfumate, ma tutt’altro che “sfuggenti” in un andirivieni temporale che segue il suo protagonista come in un flusso di coscienza. Non una scorciatoia mediata insomma, ma una scelta inconsueta e ben ponderata, persino molto rischiosa, come poi si è dimostrata nei fatti per le critiche oppositive che ha ricevuto, che a me è sembrata essere invece la maniera migliore per non circoscrive troppo con i tratti consueti della regola invalsa, una figura difficilmente classificabile, e soprattutto “scivolosa” come quella del nostro protagonista, a partire dal tema della sua (per me più che accertata) omosessualità. Eastwood e il suo sceneggiatore è proprio su tale problematica che hanno fatto una scelta molto coraggiosa nel decidere di non sottolineare con inutili pruderie voyeristiche l’aspetto morboso, la dimensione “scabrosa” dell’inconfessabile segreto tenuto pudicamente “in naftalina” e sempre sottaciuto, relativo al legame importante ad essa connesso che è poi quello che unisce il nostro protagonista a Clyde. Mantengono per questo un assoluto riserbo quasi prudenziale davvero molto lontano dal “chiacchiericcio” volgare della maldicenza, ma non per questo evitano di farcene percepire pienamente la portata in più di un’occasione, il tutto depurato però da ogni possibile sospetto di patologizzazione (lo struggente finale, l’erotica scazzottata di “folle” gelosia fra i due, Hoover di fronte allo specchio alle prese con la sua parte femminile, la scena incestuosa della madre che gli insegna a ballare nella camera da letto).

Da non sottostimare poi nemmeno tutti quegli arditi passaggi in cui i personaggi invecchiano da una inquadratura all’altra, spesso in senso inverso (vecchi quando entrano in ascensore, giovani quando ne escono), oppure nelle ripetute scene all’ippodromo, perfetti per mantenere attiva una costante e progressiva tensione nervosa in chi osserva dalla sala, e nell’esprimere come meglio non sarebbe stato possibile fare anche attraverso la ripetitività di gesti modificati solo dall’aspetto, l’esistenza di un tempo quasi “bloccato” in cui ogni momento è compresente e intercambiabile(ancora Alberto Pezzotta) così tangibilmente fermo nel suo incedere, da far sì che la pellicola si sviluppi per antinomie che moltiplicano i punti di vista: passato/presente, pubblico/privato, interno/esterno, libertà/controllo(Federico Pedroni) con una struttura della rappresentazione sempre più espansa fatta di ellissi spesso concentriche, vere e proprie scatole cinesi piene di scomparti segreti, in un andirivieni di riflessi che sfiora l’amnesia(ancora Pedroni).

Uno dei meriti principali di Eastwood e di questa sua opera “imperfetta”, sta dunque proprio nell’essere riuscito a fornire una complessità molto più ampia e profonda alla sua storia rispetto a una più ovvia procedura limitata a una semplice e superficiale caratterizzazione di facciata di una possibile sintomatologia di paranoia nevrotica, poiché qui, davvero, si scava certamente nel passato, ma per spiegare il presente, disegnando a tutto tondo la figura di un uomo certamente feroce, ma consapevole delle mutazioni che inevitabilmente la modernità produce, quella appunto relativa a Hoover, un aguzzino capace di utilizzare la ancor più temibile minaccia della violenza senza armi per rinsaldare la propria forza, assolutamente cosciente e consapevole dell’importanza del ruolo che messa in scena e rappresentazione hanno nella sua gestione del “dominio”,  e che per tutte queste ragioni, diventa di riflesso l’incarnazione stessa di un potere che racchiude però dentro di sé la storia della diffidenza e della paura segnata dal riflesso della morte.

Tante sono infatti  le immagini che portano in tale direzione: dal ritrovamento del cadavere del piccolo Lindbergh all’apparizione fantasmatica del padre, transitando per il volto impietrito dell’anarchica Goldman.

 

Mezzo secolo di storia degli Stati Uniti insomma affrontati da Eastwood seguendo alcuni dei momenti cardine che hanno definito l’esistenza di un uomo fra i più canaglieschi e potenti del suo tempo, terribile e fragilissimo allo stesso tempo, dalla guerra al crimine organizzato all’ossessione per la minaccia comunista, dal rapimento del figlio del celebre trasvolatore atlantico Charles Lindbergh, agli osceni ricatti perpetrati attraverso il suo archivio segreto che gli ha consentito di tenere in pugno l’intera nazione, comunque sempre riflessi nel privato e intimo rapporto con il più che amico e vice Clyde Tolson, con cui condividerà i giorni della gloria e quelli certamente più difficili del declino.

Nel film Hoover è tutt’altro che una figura positiva anche se di lui non si prova nemmeno a parlarne in forma totalmente negativa: rimane assolutamente “sospeso” il giudizio sulla portata reale delle sue azioni che io mi sento di definire invece (e me ne assumo la totale responsabilità) “criminose”, ma non mi scandalizzo perché davvero nel film non avverto traccia nemmeno di riletture capziose che provino per esempio a rivalutarne la figura sottolineando “patriottismo” e “buona fede” (ammesso e non concesso che ce l’abbia avuta): il punto di vista come ho già detto, rimane neutrale ma non è “omissivo” né consolatorio. E’ un uomo spesso “contraddetto” da se stesso, si potrebbe dire che non riesce nemmeno a diventare un antieroe, o peggio ancora ad assumere la dimensione mefistofelica di un eroe del male: quello che resta impressa nella mia mente è infatti soprattutto la dimensione assolutamente mediocre di una figura che ha sorprendentemente tenuto in scacco ben otto Presidenti degli States a nessuno dei quali era per altro particolarmente simpatico, che mi fa rimanere stupito e persino incredulo su come possa essere stato in grado di riuscire a gestire, nonostante i suoi macroscopici difetti, così tanto potere, se non con l’arma del ricatto e della costante malversazione programmata. Come lo si potrebbe definire infatti ove non si  conoscesse altro delle sue vicende reali e ci si limitasse a considerarlo unicamente attraverso questo approccio cinematografico?: un vanitoso; un represso; un invidioso; un ricattatore collezionista di pettegolezzi che ha imparato ad archiviare e conservare scrupolosamente ogni dettaglio, mantenendo attiva la meticolosa precisione che aveva favorito la sua prima affermazione giovanile quando teneva in ordine le schede della Library of Congres;un manipolatore dei media alla costante ricerca dei riflettori della ribalta; un ossessivo del controllo ad ogni costo; un reazionario oppressivo anche con se stesso. Un personaggio insomma che non può minimamente stabile alcuna empatia con lo spettatore, poiché di lui davvero, alla fine al di là di una parvenza di compassionevole commiserazione, ce ne importa poco o niente (Alberto Pezzotta lo ha definito un misantropo senza spessore etico, un maniaco senza bizzarria, un uomo sessualmente represso che non riesce nemmeno a conquistarsi il ruolo della vittima)  visto che siamo semmai chiamati ad osservarlo quasi entomologicamente nel suo implacabile procedere vessativo verso gli altri, vittima persino di se stesso (e in questo, e pur senza minimamente infierire, Eastwood è capace davvero di mostrarci “di che lacrime grondi e di che sangue”, semplicemente soffermandosi sul sofferto e  “incompiuto privato” ma senza mai scattare alcuna fotografica minimamente rassicurante, poiché è sempre chiaro ed evidente che si tratta di un uomo che, come si è visto, ha incarnato la violenza, le bassezze, le bugie e i ricatti del potere.

Se Dom DeLillo col suo monumentale Underwoodaveva optato senza mezzi termini per raffigurarcelo come un infido supersbirro ossessionato da microbi e contagi, perseguitato da visioni macabre e morbosamente attratto da perversioni bizzarre, Eastwood ha invece preferito restare al di qua di queste “involuzioni mentali” limitandosi a tracciare una parabola a suo modo lineare basata soprattutto sulla concezione del potere (che poi alla fine è proprio quella cosa che  nel suo esercizio sistematico, costruisce squilibri e ineguaglianze anche sociali per poi poterli più facilmente dominare) e maldestramente incapace di gestire la sua vita, che per proteggersi dalle proprie debolezze, ha scelto di occuparsi di quelle degli altri.

 

Molti hanno rimproverato al regista di non essere stato abbastanza didascalico o sufficientemente indignato, di aver fatto insomma un’operazione un po’ di parte nel suo aver omesso troppi “pezzi” importanti e primari degli avvenimenti reali della storia americana, ma qui si ritorna esattamente al punto di partenza che è poi quello - come ho accennato all’inizio – di  dover invece e necessariamente tener conto prima di esprimere un giudizio, dell’idea di fondo e di ciò che di questo enigmatico personaggio ha attirato davvero la sua attenzione fino al punto di decidere di raccontarcelo in immagini sullo schermo, il che non sempre può corrispondere con quello che avrebbe preteso di trovarci lo spettatore.

Banalmente si potrebbe osservare che nella filmografia di Eastwood mancava un personaggio come l’omosessuale, anche se aveva già provato a darcene qualche personale “accenno” nell’interessante e sottovalutatissimo Mezzanotte nei giardini del bene e del male, perché  probabilmente è proprio da lì che si deve partire. Hoover però è un omosessuale represso, tutt’altro che “sui generis”, e che al tempo stesso occupa una posizione di altissimo potere – quasi una contraddizione in termini insomma – una “scissione” evidente che lo rende ancor più intrigante,  narrativamente parlando, perché è un uomo talmente controverso da non riuscire a vivere pienamente e fino in fondo, alla luce del sole insomma, nemmeno l’amore profondo che lo lega al suo compagno: una materia che si fa dunque molto scottante e verso la quale si avverte quanto Eastwood e il suo sceneggiatore (indubbiamente molto più prossimo di lui a tale tematica) siano rimasti  turbati, persino affascinati, da un uomo che gestisce un potere così forte che gli permetterebbe di sfidare le malelingue e le apparenze, che se è bravissimo nel non nascondere il suo attaccamento verso Tolson assegnandogli un ruolo tutt’altro che complementare nella sua squadra operativa e nella sua esistenza, sembra poi accontentarsi invece anche nell’intimità, di una relazione pressoché platonica, proprio perchè l’omosessualità, nel mondo in cui vive e secondo la sua morale, è inammissibile.

Nonostante quanto a mio avviso si sia scritto troppo frettolosamente e da più parti, non è affatto dunque un film sbagliato o vittima del suo soggetto, ma solo una personale, insolita riflessione sulla gestione “illecita” (anche castrante) di un potere assoluto esercitato persino verso i sentimenti e gli affetti. Se lo si osserva con la dovuta attenzione da tale prospettiva, si può allora arrivare a capire, magari dopo due ore di proiezione o poco meno (perché sono soprattutto le sequenze finali ad essere illuminanti) che siamo stati immersi quasi senza accorgersene e per tutta la visione, dentro a un grande e potente melodramma dove magari semplicemente un’ombra intuita dietro una porta chiusa, il gesto di una mano o l’intensità degli sguardi, sono i pochissimi elementi capaci di rivelarsi come i tasselli nascosti necessari per confermare la giustezza di tale convinzione, poiché più si va avanti, è proprio grazie ad essi che si comprende quanto in questa pellicola che piega i lembi del tempo a suo piacimento, la linearità cronologica che costeggia l’ascesa di Hoover sia poco più che un mero pretesto narrativo utilizzato per costringerci a leggere negli spazi bianchi che separano le parole con cui è scritta la recente storia degli Stati Uniti d’America schivando il colpo a effetto su questo o quell’avvenimento al quale J. Edgar ha legato il suo nome, e provando invece a confrontarsi con il tracciato di un ben più ampio affresco che emerge fra le pieghe sull’uso strategico del segreto e dell’immagine, punto nodale in tutte le vicende a stelle e strisce che Hoover ha attraversato da protagonista. (Franco Marineo).

Con una ricognizione sui fatti davvero molto “rapsodica”, nelle mani di Eastwood, Hoover diventa allora un uomo per il quale l’unico privato che alla fine conta, è solo quello degli altri, mentre il “segreto” accuratamente e meticolosamente occultato del suo essere “altro” (impossibile persino da ammettere), diventa l’ingombrante fardello da tenere gelosamente nascosto sotto il tappeto dell’apparenza, ma anche l’unico implicito atteggiamento difensivo da praticare per sopravvivere da vincente in un mondo di squali, una modalità che diventa il pilastro di ogni scelta sia pubblica che privata, quasi una specie di fondale edificante “di decenza” sopra cui poter poggiare poi la propria immagine fittiziamente ricostruita e non  più distorta dalla minacciosa ombra del “vizio”.

 

Le impronte digitali permettono di identificare una persona, ma non quello che c’è “dentro” a quella persona (Emanuela Martini).

 

Rimane a questo punto da parlare della forma “speciale” della rappresentazione, visto che nella pellicola tutti sembra che portino una maschera, e non solo quando sono invecchiati, appesantiti da un trucco volutamente artefatto. E’ certamente un tratto distintivo di straordinaria rilevanza e tutt’altro che casuale,  che molti invece – scandalizzati per la “presunta imperfezione” del pressappochistico lavoro dei truccatori -  non hanno nemmeno voluto prendere in considerazione quale elemento stilistico primario e straniante, bocciandolo irragionevolmente come una inaccettabile “disattenzione”.

Ma credete davvero che un cineasta  preparato ed abile (almeno questo dovrebbe essergli riconosciuto) attento e scrupoloso non avrebbe potuto pretendere qualcosa di meglio anche in questo campo se ciò fosse stato conseguente al suo disegno?

Impossibile dunque liquidare come una svista questo aspetto essenziale della messa in scena (che poi riguarda solo alcuni personaggi – e anche questo avrebbe dovuto far riflettere di più prima di parlare) imputando a incomprensibile maldestrezza quella specie di rigor mortis che sembra immobilizzare le fisionomie dove solo gli occhi parlano(Emanuela Martini) poichè quando il regista lo ha ritenuto necessario, ha operato in tutt’altra direzione, e se si osserva bene, si trovano infatti decisive somiglianze fisiognomiche amplificate da un trucco sempre puntuale (e convenzionale), per esempio per quel che riguarda i “veri” protagonisti della Storia (e infatti Christopher Shyler e Jeffrey Donovan somigliano davvero e molto a Nixon e Robert Kennedy, che sono i personaggi che devono rappresentare sullo schermo) anche se nemmeno loro danno la sensazione, come invece accade spesso in questi casi, di trovarci dentro a uno sterile museo delle cere.

Maschere dunque costruite con un eccesso di cerone, segnatamente grottesche come una “falsificazione”, che ben simboleggiano la necessità del “nascondersi”,  del “camuffarsi” del rendersi “volutamente diversi da quello che veramente siamo”, e che rimandano persino come assonanza metaforica, al mimetismo politico, antropologico e sociale, qui fortemente enfatizzato dal gioco estremo del potere, e non a caso allora uno dei primi soggetti su cui si sofferma la macchina da presa, è proprio un’altra “maschera” appoggiata sul piano di una scrivania nell’ufficio di Hoover, più esattamente il calco funebre riprodotto in gesso della faccia  di John Dilinger, il gangster ucciso a Chicago nel 1934 in un agguato organizzato dall’FBI, un’anticipazione fortemente simbologica  che a mio modesto avviso, racchiude uno dei significati più profondi e “certi” dell’intero film, traslato e “certificato” poi in quei faccioni rugosi resi altrettanto surreali dall’esibita pesantezza di un maquillage cosmetico altrettanto “gessoso”, e dietro al quale ci sembra di intravedere J. Edgar intento a lottare contro se stesso e la ferrea disciplina che lo ha formato, lo ha elevato al rango del potente costringendolo a tenere a guinzaglio non solo le sue debolezze sessuali, ma anche la  diversa esuberanza di Clyde.

 

La verità sta dunque nei dettagli, e la leggenda non è più da stampare (Alberto Pezzotta).

 

Figura tragica come poche altre, l’Hoover  di Eastwood  è dunque e prima di ogni altra cosa, vittima di se stesso, imprigionato in un ruolo pubblico che soffoca la spontaneità del suo privato, e riduce il tutto a “rappresentazione”.

Entrando nei “dettagli”, una delle scene più esplicite riguardo all’omosessualità di Hoover e del suo “macerarsi” dentro, è proprio quella con sua madre nella stanza da letto (una umiliante costrizione che quasi ogni omosessuale ha dovuto subire sulla propria pelle con modalità più o meno analoghe, e dove le parole fanno più male di una coltellata): Preferirei avere un figlio morto anziché un figlio “gerbera”urla la donna al figlio quarantenne che non sa ballare e al quale insegna con piglio volitivo i primi passi della danza, con i quali pretende di fornirgli i giusti connotati per una maggiore, (im)possibile mascolinità, una magistrale sequenza che fa il paio per altro con quella in cui Hoover davanti allo specchio si attarda a rimirarsi posandosi sul corpo i vestiti e i monili della madre, due momenti ugualmente “strazianti” per le implicazioni che si portano dietro capaci di mostrare tutta la disperata consapevolezza di una castrante,  insuperabile negazione di se stesso.

Di analoga portata esplicativa, anche la lunga sequenza della lotta con un Clyde furibondo che ha appreso che l’altro sta meditando di sposare l’attrice Dorothy Lamour, e culmina in un abbraccio, un bacio e un morso simile all’inizio di un amplesso, dal quale entrambi gli uomini si ritraggono imbarazzati e sconvolti.

Dettagli dunque, e tanti, con i quale Eastwood cerca di inchiodare il suo protagonista non solo al proprio passato, ma anche a ciò che è e non vuole essere, sovrapponendo le sue storie private alla Storia ufficiale dell’America, e che per questo chiude spesso i  personaggi in spazi sempre molto circoscritti come corridoi, tinelli, uffici, saloni, abitazioni piene di soprammobili e ammennicoli vari, similitudine di un tempo inerte e quasi inamovibile, mentre fuori il mondo reale tenuto ossessivamente sotto controllo ma mai veramente vissuto come tale, passa, si evolve, si modifica, non gli permette più di stare al passo con gli eventi. Fuori da quelle stanze, da quegli spazi chiusi, Hoover non è infatti mai a suo agio e non ha veri e propri rapporti con nessun altro se non con la madre, la sua segretaria e Clyde.

Il segreto primario comunque - il dettaglio più inquietante (più forte ancora di quell’omosessualità lasciata “sospesa” con umana comprensione)  riguarda proprio il complesso mondo fatto di convenzioni e di doveri incarnato dalla madre, anch’essa fissa in una “corrispondenza visiva” che la rende sempre uguale e “immutabile” nonostante il variare degli anni e gli scarti temporali, principale responsabile (“colpevole”, direi) dei guasti causati nel ragazzo (l’educazione bigotta, il perbenismo, l’arrivismo, persino il “mimetismo” che gli ha inculcato da sempre nel cervello).

Era proprio il tipo di madre che nessuno vorrebbe, mi verrebbe da dire: una di quelle che mi ricorda da vicino l’oscura presenza manipolatrice di una Lady Macbeth soltanto più “borghese”: determinata, possessiva, assolutista, che certamente vuole solo il meglio per suo figlio, ma solo perché immagina che quei successi possono riflettersi anche su di lei e darle nuova luce vitale.

Dettagli insomma che rendono maggiormente palesi le origini delle tendenze al travestitismo e le cause primarie della paranoia relazionale di J. Edgar, ma chiariscono anche le particolarissime interconnessioni con la fedele segretaria  Helen Gandy, la figura più misteriosa e determinata dell’intera pellicola, poiché è anche da queste che si intuisce l’esistenza di tracce pesanti di un complesso di Edipo non risolto individuabile persino nel rapporto con Tolson Clyde (sul quale -nonostante ciò che ci viene  mostrato o raccontato dai biografi - io ho davvero pochi dubbi che al di là delle apparenze formali, nel chiuso di una camera d’albergo non sia mai stato effettivamente consumato fino in fondo almeno in qualche circostanza). Non è solo dal drammatico “contatto”conclusivo di Clyde che stringe al petto il cadavere inerte del compagno, o nel corpo a corpo dell’isterica scena della lotta, che traspare la vera natura del rapporto che li lega (per me oggettivamente , e lo ripeto, “oltre il platonico”): a mio avviso risultano ancor più significativi i reiterati gesti di tutti i giorni, le schermaglie e gli sguardi, a partire da quelli del loro primo incontro (i loro movimenti e i tempi che li accompagnano raccontano infatti già una storia  fatta di intimità negata che prende appunto avvio in un luogo appositamente predisposto per assicurare al tempo stesso distanza e predominio) per arrivare alle cene al ristorante, passando dalle corse dei cavalli, le piccole consuetudini quasi maniacali, le mani che furtivamente si sfiorano nel taxi, che esplicano meglio di ogni altra cosa ciò che davvero sono stati l’uno per l’altro, e non è poi probabilmente un caso che solo in quelle scene avvertiamo anche una variazione cromatica che ravviva i toni, li rende più “caldi” ed accoglienti in una pellicola complessivamente dominata da colori smorti simili a quelli di un documentario, e tagliata da una luce livida quasi mortuaria.

 

J. Edgarè dunque una pellicola strutturata sui dispositivi della paura e del potere che reggono un paese come l’America, con Hoover - spesso anche voce narrante - che si conferma il “dominatore” di un film in cui, come si è visto, una vicenda intima viene elevata al rango di parabola di un’intera nazione.

A ogni passaggio della storia (o meglio nella progressione degli “slittamenti temporali”)  si ha tuttavia spesso l’impressione che qualcosa sfugga al desiderio di controllo del protagonista, come se quella versione edulcorata e piena di bugie della sua storia, non fosse sufficiente a rendere totalmente sicuro il narratore della compattezza monolitica del monumento da tramandare ai posteri in troppi punti incrinata da preoccupanti increspature che ne modificano la consistenza, variandone la visuale, esattamente come sono sempre diversi i volti dei biografi che si succedono nel tempo a raccogliere le memorie di un “capo” evidentemente molto più bisognoso di conferme di quanto non sembrasse in apparenza.

Piccole crepe che si insinuano nella verità del racconto, falsità subito smascherate o improbabili ipotesi contestate da sguardi dubbiosi, insomma, ma sufficienti a farci avvertire il bisogno di conoscere anche “l’altra faccia della medaglia” scrutata da un differente punto osservativo (quello a cui accennavo all’inizio). Sarà allora Clyde l’unico altro testimone davvero attendibile del racconto, ad assumersi il compito di ristabilire la verità di alcuni episodi volutamente artefatti da Hoover per eccesso di vanagloria: non è stato J. Edgar infatti ad arrestare Dilinger, né è ascrivibile al suo diretto intervento operativo alcuna altra azione punitiva compiuta in diretta, esattamente come non c’era alcun cavallo bianco sulla scena dell’arresto di Karpis, né erano cosi “romanticamente” rispettosi i rapporti con Lindbergh che nella realtà dei fatti si era addirittura rifiutato di parlargli.

 

Per concludere, devo necessariamente acclamare la prepotente resa interpretativa di un Leonardo Di Caprio di straordinaria potenza espressiva mimetica e vocale (mi riferisco alla versione originale ovviamente) che avrebbe indubbiamente meritato più attenzione dall’Academy.

Ottimi come sempre anche tutti gli altri componenti del nutrito cast, con particolari menzioni  per la sempre straordinaria Judy Dench, e per Naomi Watts.

Da citare ancora  per lo meno Armie Hoover, “perfetto” come Clyde, Geoff  Pierson, Josh Lucas, Dermot Mulroney e Jessica Hecht, oltre alla “cupa” fotografia di Tom Stern e al montaggio creativo di Joel Cox e Gary D. Roach.

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