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J. Edgar

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su J. Edgar

di lussemburgo
8 stelle

Inizia ex-abrupto J. Edgar di Clint Eastwood, senza perdere tempo in ipocrite presentazioni o inutili introduzioni, immergendosi immediatamente nella mente del protagonista e padrone della narrazione. Entriamo subito nel film mentre l’onnipotente padrone dell’Fbi per mezzo secolo è intento a dettare le proprie preziose memorie e a riscrivere la storia, privata e pubblica.
Eppure Eastwood si prende tutto il tempo per circoscrivere e individuare l’effettivo soggetto del film, per allontanare gli orpelli e le pesantezze del biopic e stringere sul personaggio e sul coacervo di contraddizioni che nasconde. Così la recitazione di Di Caprio, normalmente tormentata, si fa interiore e rabbiosamente controllata, mentre J. Edgar procede quasi altero per rivelarsi, attraverso una lenta combustione, soltanto sul finale, in un’epifania musicale di pochissime note al pianoforte che accendono il fuoco della verità intima del personaggio e del suo ritratto.
La narrazione continua a spostarsi tra il movimentato passato, raccontato ai cangianti trascrittori del proprio memoriale, e il presente dell’inazione di un anziano Hoover. Ad interlocutori mobili, costantemente trasferiti perché sospetti di inaffidabilità, l’anziano reggente dell’Fbi confida la storia di un direttore e, sullo sfondo, di un’America che, poco alla volta, l’eroe narrante ha plasmato secondo le proprie esigenze. Claustrofobico e buio, il film si rinchiude nelle dimore del protagonista, nella casa avita della madre castratrice e nell’ufficio al Bureau, unico lembo di autogestione e illusione ben coltivata di onnipotenza. Come Citizen Kane anche J. Edgar racconta un dissesto affettivo mai placato dal successo lavorativo, e continua l’immaginario del paranoico frustrato che Di Caprio aveva già incarnato con esuberanza in The Aviator di Scorsese, ancora memore di Welles.
Anticomunista imperterrito e moralista irrefrenabile, Hoover si è sentito investito dal sacro impegno di salvaguardare la Nazione da ogni deviazione, si vuole incarnazione del partigiano unico della Costituzione, da difendere da ogni cedimento, anche cancellando la democrazia. Imperatore senza macchia né impero, Hoover recensisce ogni debolezza per costituire dossier compromettenti con i quali fare leva, nei momenti più opportuni, per continuare il proprio dominio e coltivare il prestigio personale.
Il film vive tutto nell’inaccettabile contraddizione del personaggio di voler essere il paladino della società americana classica e la sua incapacità a gestire le pulsioni, la vergogna stessa dell’amore e l’ipotesi del sesso, soprattutto nella sua accezione anticonformista così vituperata, perseguitata e condannata negli altri perché motivo fondante di ogni ricatto. Così J. Edgar si fa biografia del feticcio, di un’illusione coordinata ad arte nella creazione di memorie fallaci, di verità pettinate, di rivelazioni mascherate. La vita di Hoover è la costruzione di un’immagine totale che si vorrebbe veritiera perché più adeguata al ruolo e all’impegno profuso per decenni per difendere una certa idea di società, mai consapevole della propria evoluzione. Perché il creatore del moderno Fbi ha sempre forzato la storia nei ristretti ambiti delle proprie frustrazioni, ha costretto la verità nei vincoli delle personali ossessioni, l’ha travestita da pudica valorosa per nasconderne la naturale trasformazione.
Quando la macchina da presa penetra nell’alcova del Direttore ormai defunto, stramazzato al suolo accanto al letto, il suo occhio scandaglia il trionfo del feticcio di una cupa camera piena di specchi e di nudi maschili, concedendosi l’unica intrusone nel mondo privato di J. Edgar Hoover, a tutti, e a sé stesso, sempre celato. E il quel momento il film si smaschera dolente melò di un amore negato, di una affettività nascosta e mal vissuta per manifesta incompatibilità con la convinta illusione coltivata dal protagonista, di netto stracciata dal regista che mai condanna ma osserva e compatisce.

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