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J. Edgar

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su J. Edgar

di ed wood
8 stelle

Il copione di "J. Edgar" soffre di tutti i difetti tipici dei biopic: didascalismo, accumulo di aneddoti e personaggi, smania di ricreare non tanto l'atmosfera di un'epoca quanto i dettagli di Storia e storie. Per fortuna, dietro la mdp c'è il vecchio infallibile Clint che riesce a tenere desto l'interesse dello spettatore per le due ore abbondanti di film, facendo il possibile per moderare gli aspetti potenzialmente più patetici della vicenda. La parabola discendente di Eastwood autore pare avviata da tempo (d'altra parte, dopo "Gran Torino", cos'altro si può chiedere ad un cineasta?), ma giustamente il grande regista americano vive di rendita per quanto dimostrato nella sua prolifica carriera, in particolare nell'ultimo decennio, dove ha letteralmente tenuto in piedi il cinema USA sulla scorta di 3 o 4 opere memorabili. D'altra parte il biopic è destinato a rivestire il ruolo di "film minore" nell'opera dei più grandi registi, i quali non possono fare a meno di rimanere succubi del fascino di un personaggio celebre o di un'epoca storica "leggendaria". Non è forse "The Aviator" l'opera più "futile" di Scorsese, ad esempio? Quella in cui il maestro italo-americano si lascia trasportare dalla passione per l'immaginario hollywoodiano classico, mettendo in secondo piano il presente, la società, la Storia intesa come chiave di lettura della realtà? Un discorso da un lato affine, ma d'altra parte diverso si può fare per i biopic di Eastwood, come "Invictus" e "J. Edgar". Se è vero infatti che lo spessore teorico, politico e metaforico di questi film non è neanche lontanamente paragonabile a quello di un "Gran Torino" o "Million Dollar Baby" o "Mystic  River" o "Gli Spietati", d'altro canto Eastwood non rinuncia a sfruttare la ricchezza tematica offerta da un personaggio (e dal suo ruolo storico) per approfondire la propria posizione ideologica. E così, il controverso J.E. Hoover diventa il veicolo con cui Eastwood espone la sua visione della società americana. La parola chiave per comprendere il messaggio, lanciato dall'autore attraverso il personaggio presentato tuttavia con il consueto distacco critico, è "moralismo" (nel senso positivo del termine). L'Hoover di Eastwood è ligio al dovere, scrupoloso, coerente coi propri principi. E' disgustato tanto dalla violenza dei radicali quanto dall'ipocrisia di un McCarthy o dalla disonestà criminale di un Nixon. Assume per scontata la bontà della democrazia americana e combatte ogni forza che cerca di opporvisi oppure di corroderla dall'interno o, peggio, di farla degenerare. Il suo astio è tanto verso i politici e le istituzioni quanto verso i dissidenti e i malviventi, poichè i primi sono copevoli di aver sottovalutato i problemi innescati dai secondi. Un tutore dell'ordine, quindi: conservatore, reazionario, di Destra inequivocabilmente. Come Clint. Ma anche una persona di grande carattere e idealismo, incapace di scendere a compromessi e di farsi corrompere o imbavagliare, un gran lavoratore dedito alla sicurezza del proprio Paese e dei propri valori professati in totale buona fede. A suo modo, per paradosso, un anarcoide, uno spirito libero. Come Clint, anche in questo. La finezza registica ed interpretativa nel gestire la componente privata di Hoover (l'omosessualità repressa, l'impaccio con le donne, la soggezione nei confronti della madre) rende il ritratto di questo celebre uomo del Novecento ancora più tragico e dolente. E qui, chiaramente, il merito va anche a Di Caprio, attore controverso, da amare od odiare. Attore di Metodo, indubbiamente. Ma forte di una notevole capacità mimetica e di sorprendenti raffinatezze. Se il suo sodalizio con Scorsese era  naturale, visto il "nervosismo" che caratterizza l'approccio di entrambi, quello con il calmo Eastwood destava più dubbi: e invece il fascino di "J. Edgar" risiede proprio nel contrasto fra l'instancabile vitalismo dell'attore (acuito dall'andirivieni temporale, che evidenzia lo spirito inquieto ed indefesso di Hoover) e il distacco imposto dal regista. Ne viene fuori un senso di impotenza, di ansia, di sconfitta: si ha come l'impressione che tutti gli affanni, le critiche, le battaglie esperite da Hoover e dal suo bureau siano destinati all'oblio, così come il suo sincero senso dello Stato.

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