Espandi menu
cerca
J. Edgar

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

Recensioni

L'autore

scapigliato

scapigliato

Iscritto dall'8 dicembre 2002 Vai al suo profilo
  • Seguaci 137
  • Post 124
  • Recensioni 1361
  • Playlist 67
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su J. Edgar

di scapigliato
8 stelle

Il cinema silente dell’ultimo Eastwood si fa ancora più silenzioso. Le poche scene di azione, con sparatorie ed esplosioni, sembrano ovattate dal racconto classico e dalla voce off di una diegesi poco mimetica, tutta fondata sulla tutela narrativa. C’è chi parla, da Hereafter in avanti, di un certo “libro dei morti” eastwoodiano, e non gli si può dare torto. Le atmosfere fredde, senili per vocazione estetica, le luci fosche, i tanti neri profondi che immergono volti e luoghi, i colori denaturati che da Flags of Our Fathers sono diventati un marchio registico inconfondibile, sono tutti elementi linguistici del cinema di Clint Eastwood in questi anni 2000, e non solo, sono anche il miglior hambient per raccontare storie di fantasmi, di padri “uccisi” o da “uccidere” nella più classica delle tragedie americane. Storie, se non di veri morti, almeno di living dead comuni, non-orrorifici, ma ugualmente inquieti. John Edgard Hoover, visto da Eastwood, è uno di loro.
Chi conosce, almeno sommariamente, la storia degli Stati Uniti, o forse sarebbe meglio dire la “storia del popolo americano”, giusto per parafrasare il titolo del fondamentale lavoro storiografico di Howard Zinn – edito da Il Saggiatore – saprà bene che ogni tentativo di riabilitazione di Hoover cadrà inesorabilmente sotto i colpi dell’obiettività e del senso civico e democratico della giustizia. Sicuramente aspetti positivi del suo lungo mandato, interrotto solo dalla morte, ce ne saranno come la scientificazione dei procedimenti d’indagine, il ripulisti di tanta criminalità, e poco altro, ma gli abusi di potere? Le vigliacche intercettazioni con cui ricattare presidenti e leader popolari? Le intimidazioni legalizzate? L’ultraconservatorismo fondato sullo spettro di un’America socialista? Chi conosce la storia di quel belpaese saprà che se l’America è sempre sotto assedio, o almeno lei si considera tale, è perché la sua fondazione è avvolta nel sangue, nell’usurpazione di terre e diritti altrui, che i cinquanta firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza erano tutti maschi, bianchi e i più ricchi del paese, che il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington, era all’epoca l’uomo più ricco d’America. Il conflitto iniziale su cui è nata l’America, Inghilterra contro Colonie, ovvero Monarchia contro Repubblica, ma più indirettamente Potere di Pochi contro Potere di Molti, si è poi esteso ad ogni gesto ed azione dell’homus americanus, in ogni sua linea di pensiero, tanto da invadere le fondamenta stesse del giudizio critico.
Nonostante questo dato di fatto, Clint Eastwood umanizza John Edgar Hoover in nome del suo celebre umanesimo e lo fa martire dei suoi stessi martíri, vittima della sua stessa carneficina. La sceneggiatura di Dustin Lance Black, che ha dovuto ridimensionare l’aspetto omoerotico della vita di Hoover, predilige il mero resoconto cronachistico, qualche intimità rubata, e molta introspezione personale dando a Leonardo DiCaprio la possibilità di creare il suo miglior personaggio con un’interpretazione magistrale, mimetica sì, ma che va oltre alla verosimiglianza storica ed estetica, invadendo l’anima drammatica del personaggio. Questa giustapposizione di fatti, dalla lotta anti-bolscevica al caso Lindbergh, intessuta da passaggi temporali bruschi e spiazzanti, giocati anche con un trucco forte, pesante, che invecchia i personaggi in modo eclatante e per nulla posticcio, è diretta da Eastwood con sapienza chirurgica. Non una sbavatura, non un orpello inutile, bensì dettagli emotivamente importanti e passaggi e battute puntuali, precise, senza lasciare possibilità alcuna di fraintendere o travisare. Il racconto storico che Eastwood fa di quarantotto anni di storia americana, storia criminale e politica americana, è una seduta chirurgica. Lo sguardo è quello scomodo dello stesso Hoover, che vede comunisti, bolscevichi, sindacalisti, rapitori e delinquenti come la più grande minaccia per il paese, un po’ come il primo Roosevelt e l’amico Owen Wister. Non c’è una presa di posizione politica nell’Eastwood Touch, ma solo il fatto così come accadde e così come si poteva vedere dalla focalizzazione del protagonista. Solo con il procedere della pellicola intuiamo la pietas con cui il Maestro guarda, lui sì stavolta e noi con lui, l’uomo-Hoover, un folle, un tiranno, un patologico, qui però umanizzato, reso vulnerabile, con un animo lacerato ed una grande malattia tutta americana: uccidere ciò che si ama, solo per una questione di bieco e inutile patriottismo, solo per poter recuperare una dignità ed una forza virile che altrimenti non sussisterebbe. Un vita muscolare, da eroe di ferro, che l’America ha scelto fin dai suoi primi vagiti, e che l’hanno portata ad essere un grande paese macchiato di grandi e gravi colpe, errori e delitti.
Il fantasma che serpeggia in bassocontinuo in molti film eastwoodiani, almeno da Gli Spietati in avanti, è il fantasma di un’America in conflitto con se stessa, un’America che parla di libertà e giustizia, ma che ha guadagnato i suoi spazi e i suoi poteri col sangue innocente di indiani, messicani e afroamericani. La chirurgia di Eastwood in J. Edgar sta in questo: presentare il fatto storico privato di uno sguardo politico che non sia quello del protagonista stesso, tre quarti di film dove sterilmente il “corpo americano” viene sezionato e frammentato – come da prassi grammaticale – per poi passare all’ultimo quarto della pellicola dove si opera a nervi scoperti, dove individuato l’interstizio dell’ambiguità Eastwood abbandona il bisturi con cui incideva lievemente prima e affonda le dita nella ferita aperta. Lacrime, slanci patetici, singhiozzi pure in sala, come al solito il Maestro sa inclinarci il cuore nonostante il gioco delle maschere – tutti gli attori invecchiano straordinariamente, e non solo DiCaprio merita applausi a scena aperta, ma anche Armie Hammer sa liberare il tormento di un uomo marginalizzato – nonostante il gioco delle maschere sia un gioco di rimandi, di specchi, di ambiguità, di dissolvenze, di “opere al nero” che se da un lato demonizzano i fatti storici – abusi di potere, stato poliziesco, intimidazioni e ricatti legalizzati - umanizzano la mano che li ha condotti. Senza giustificarla.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati