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J. Edgar

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su J. Edgar

di lorenzodg
10 stelle

J Edgar” (id., 2011) è il trentatreesimo lungometraggio del regista di San Francisco.
          Film cupo, sporco, deviante, angosciante, serrato, intimista e pieno di sterco.
      Un’opera cadenzata di livore e di amore verso il proprio paese; senza nessuno sconto, la storia di Edgar è la storia degli Stati Uniti. L’altra faccia della medaglia (ma anche la stessa) ritratta all’interno di una famiglia, di un ufficio, di un’indagine, di un potere, di un servilismo, di una sudditanza, di un amore nascosto e di una passione viscerale. Un uomo incontra il suo destino per notorietà intrinseca e per combattere (sempre) il nemico di turno: in ogni dove, tragitto, luogo e presidente, Edgar incontra il piacere di se stesso, la viltà americana e il successo della vittoria (della prima pagina comunque).
      Il racconto della sua vita diventa epitaffio di una nazione (dentro decenni di avvenimenti e cambi presidenziali) mai doma di se stessa che sberleffa ogni storia criminale (non volutamente) con una Hollywood impietosa e sagace. E le pellicole di James Cagney sono il marchio di fabbrica di una morte avvenuta prima del cambio finale e della parabola di vita di un personaggio invidiabile, facinoroso, teatrante e frustrato dal comando (ordinato).
    L’attesa nella pre-sala della stanza ovale dà la sensazione di un antidoto perenne ad ogni cambio di potere quando il potere (stesso) conferma se stesso fino ad un epilogo morale e civile che sconquassa l’intero paese. Il Vietnam e lo scandalo Watergate delineano la fine de(i) (un) sogno(i).
     Il discorso e la faccia rappresenta un oltre disciplinato e recitato, ma l’interiorità del potere è frustrante, fangosa, putrida, infamante e destabilizzante
     Siamo di fronte all’Fbi nascente, all’epigono cronologico di un mistero, di un fantasma che s’insinua nello star-politic americano per lustri inaspettati, di un’oscurità latente che diventa morbo dentro la Casa Bianca (per ben otto presidenti), di un morto vivente che cammina tra muraglie e visi pallidi, di uno statuario uomo che dimena libertà al suo Paese ma dimentica i diritti di tutti, di un santo anarchico che disprezza la gioia tra condanne, uccisioni, complotti e attentati eccellenti.
            Un’America spudorata e taciturna, dove il fratello sa (molto) meno di un estraneo e dove la sconfitta giornaliera è specchio di masturbazioni politiche, vivacità culturali ed opposizioni radicali schiumate di rabbia e di candore filmico (del bianco e nero).
      Ma la vera calligrafia (estetica) e la bellezza ortografica (inerme) spaventano per le loro elucubrazioni mentali: tutto pieno di pietà morta e falsità vive. Un’avvicendarsi di scenografie e di chiaroscuri lancinanti per raccontare la (morte) nazione e la voglia di (purgarla) spennarla.
        Il Cinema di Clint racconta ultimamente i cieli plumbei e le parabole discendenti di personaggi (veri e plastificati) e dei loro modi di tratteggiarsi. Da “Gran Torino” l’attore (oramai mito a se stesso) si rincuora e si ricuce un epilogo amaro con un funerale striminzito, mentre Edgar (non un mito filmico) non ha nemmeno nascosto il corpo morto al pubblico. Il potere è veramente nudo e il presidente Nixon, saputa della dipartita del nemico accertato definito ‘rompicazzo’, non può che dichiararsi “addolorato della perduta del caro amico…” . Il rituale estetico dimezza e azzera la verità oltre vetrina ed ogni grande-tenente non può che odorare marcio da tutte le parti e aria putrefatta che si insinua fin su le narici del più commiserevole servo di un qualsiasi ufficio di gestione (di comando). Una Fbi piena di ritegni e di spauracchi scheletrici che da soli basterebbero a far saltare la baracca, ma il vecchio Edgar si fida ancora della sua segretaria Helen (Naomi Watts) e le dà un ultimo incarico di “non far vedere a nessuno i fascicoli riservati’ e lei ripone il suo comando dicendo ‘neanche sotto tortura’ dirà una parola di più di quello che sa (cioè zero).
     Il disincanto che offre (a fette) questo film è disarmante e inglobante: vieni assorbito completamente dalla cronaca spicciola e ardimentosa di un uomo avvinghiato e alienato dal suo stesso ordine di (sedia) comando. Un susseguirsi di inquadrature, luoghi e fatti che rimangono spudoratamente inefficaci a loro stessi, sono lì per farsi notare ma scivolano in superficie e non commiserano l’occhio inchiodato di un terribile bambino cresciuto (a modi acerbi e forti da una madre -Judi Dench- che tutto vuole meno un figlio debole ma pieni di muscoli e vittorie).
        Clint Eastwood mostra la storia di J. Edgar Hoover attraverso uno stile personale e, nello stesso tempo, attinto dai suoi maestri di regia (Leone in primis), con un resoconto storiografico attraversoi continuo flash-back nel ‘diario’ acerbo e incessante di Edgar alla stampa di un libro e al pubblico in sala (per il regista). Una concatenazione continua e interessante, dilaniante e morente che scandisce ogni avvenimento e fase della vita del capo dell’Fbi. ‘Un avvenimento unico…oltre la resurrezione…’ dicono: ecco come i media,che lo stesso Edgar si compiace di conoscere bene, ritagliano ogni momento di un’epoca dietro l’altra.
         L’interpretazione di Leonardo DiCaprio (nel volto e nell’umore di Edgar) è stupefacente, particolare e ogni sfaccettatura viene tristemente arricchita da uno sguardo fulminante e da una ripresa catartica e, parimenti, onirica.
           La scena della salita in ascensore di Edgar e del suo secondo (il fido e più che amico Clyde Tolson -l'America pulita e puritana non disdegna un amore ingrato quando il Paese è in gioco...-), in età avanzata, (con inquadratura in altezza) e della loro uscita in piano (con un frontale scorrevole), in età giovanile, fa scattare il plauso narrativo all’ascesa di carriera e al ritorno di un sogno di un bambino (quasi viziato da dogmi e detti di una crescita di una nazione e del suo statuto libertario).
         Altrettanto efficace la recitazione di Armie Hammer (Tolson) come quella di Naomi Watts (segretaria di fiducia che antepone la carriera al matrimonio). Ma è difficile cercare difetti nel cast del film: ogni scena, ogni faccia, ogni modo antepone il dramma alla storia e strappa dizioni accademiche (della migliore università di Washington).
            Corrosive e malinconiche, incisive e penetranti le musiche dello stesso Eastwood.
            Voto: 9.

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