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Killer Joe

Regia di William Friedkin vedi scheda film

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La recensione su Killer Joe

di scapigliato
9 stelle

Una delle prime immagini di Killer Joe è la fica di Gina Gershon from Bound – Torbido inganno. Grande pièce teatrale di Tracy Letts – lo stesso di Bug – grande cast, grande regia. William Friedkin ritrova, proprio a partire da Bug, l’ispirazione dei suoi lavori migliori, che iniziarono a zoppicare nel 1995 di  Jade, gran bel noir erotico sulla scia del successo di Basic Istinct e Sliver.

Tralasciando l’artigianale The Hunt, bello ma senza anima, da Jade a Bug sono passati molti anni, nei quali Friedkin ha saputo probabilmente interrogarsi sul suo ruolo di cineasta seventie alle porte del nuovo millennio. Titoli come Vivere e Morire a Los Angeles (1985), Cruising (1980), Quella Notte Inventarono lo Spogliarello (1968) come Festa d Compleanno per il Caro Amico Harold (1968) e soprattutto L’Esorcista (1978) e Il Braccio Violento della Legge (1971), film anarchico come il gemello Dirty Harry (1971), sono titoli che fanno impallidire quelli più recenti dove il regista, in un pugno di pellicole, soffoca la classe di un tempo. Ora pienamente ritrovata.

Se non è più il Friedkin barocco dell’esorcista Max Von Sydow, è sicuramente l’abile documentarista di The French Connection. Lo scarto del reale diventa narrazione cinematografica, e privandosi del superfluo, adotta la deviazione bizzarra e a volte onirica e psichedelica per deformare il reale stesso, già modellato esternamente dalla teatralità e dalla unicità dei suoi personaggi. Il regista della più famosa scena d’inseguimento della storia del cinema – Gene Hackman in macchina sotto la sopraelevata di New York a caccia di Marcel Bozzuffi – e padre di uno degli incubi più estremi dell’immaginario collettivo – appunto L’Esorcista – trova tra Bug e Killer Joe, quindi in Tracy Letts, l’ispirazione moderna, forse post, per tornare al classico senza rinunciare alla provocazione.

In Killer Joe, oltre un grandissimo cast dove su tutti si distingue Matthew McConaughey nel ruolo che vale una carriera, Friedkin pugnala il ventre molle del Grande Paese – il Texas, quindi l’America – e mentre sanguina ci infila sale e dita senza pietà. La famiglia disfunzionale composta da Haden Church, Gershon, Temple e il sempre più immenso Emile Hirsch, può ben essere quella di tanti horror autoriali dei ’70, come la famiglia Hewitt di Non Aprite Quella Porta fino ai Firefly del dittico horror di Rob Zombie. Anaffettivi oppure ipermielosi, carnevaleschi nei sentimenti, puerili nella vita sociale, impulsivi/compulsivi in quella carnale, dal sesso al cibo. Nessuno si salva tra le mura sgangherate di questo pezzo di America. E così, le solide basi noir su cui parte il film – pioggia torrenziale, un delitto, un assassino, un affaire che scappa di mano, delinquenti contro delinquenti – diventano man mano che la storia procede un girone infernale che del noir preserva i contorni disperati e la grammatica, ma acquista l’estetica orrorifica di uno slasher con sovrabbondanza di sangue, violenza gratuita e quel tanto di perturbazione che non le manda certo a dire – sesso e cibo vanno ancora di pari passo, vedere la scena della fellatio alla coscetta di pollo fritto.

La gratuità delle immagini più forti non è da leggersi come facile ricorso al sensazionismo, bensì come estetica precisa che da sempre contraddistingue lo sguardo degli autori più feroci, da Friedkin stesso a Tarantino, passando per Romero, Hooper e Dario Argento, e molti altri in altri generi, compresi i film di Gregg Araki e Bob Clark. L’esibizione del proibito, quasi sempre di carattere sessuale, corrisponde con l’urgenza autoriale di sventrare le viscere della borghesia imperante attraverso il tabù mai sdoganato del corpo nudo, del corpo violato, sfatto, smembrato, usato e giocato in ogni modo, vecchio retaggio dell’atavico complesso cannibalico, antireligioso, dell’essere umano. Non solo, corrisponde anche al desiderio nascosto dello spettatore voyeurista che Friedkin conosce bene; desiderio che vuole trattare con sempre nuove e moderne immagini il vecchio mito universale del tradimento edenico, l’affronto a dio e lo slancio pagano verso il corpo nella sua prima forte esigenza: lo stimolo e il piacere carnale. Non poche sono infatti le scene e gli snodi narrativi in cui cibo e sesso – due degli stimoli fisiologici più significativi – s’accoppiano in un vorticoso gioco di rimandi. In primis, l’ultima, apocalittica e carnasciale di esse.

Il twist con cui Friedkin chiude il film è l’equivalente drammatico del torture-porn in un film horror. La cifra estetica e linguistica di molti di questi film disperati, sta proprio nel massacro finale, senza senso, senza un motivo, senza nessun vero legame causa/effetto, dove i padri vogliono uccidere i figli e dove l’urto della violenza più istintiva fracassa in un solo grande respiro. Il “carnage”, il gioco al massacro che si sviluppa lungo tutto l’arco narrativo, trova il suo climax in un pandemonio di piombo e sangue diretto e montato non solo con classe d’altri tempi, ma con la consapevolezza che la forma della confezione è il contenuto della scena e del suo insieme iconologico.

Film che non appartiene alla produzione 70s di Friedkin, così come non è necessariamente figlio del nuovo millennio. A tratti propone immagini e carrellate prese pari passo dai film mainstream di genere, ma sa regalare per la quasi totalità della pellicola, lo stesso impatto estetico del Drive di Winding Refn, dove l’immagine torna, abbinata all’intreccio, a predominare sull’intero processo creativo cinematografico. E allo stesso modo contribuiscono gli attori, tutti in parte, tutti straordinari, a rendere fisico e palpabile l’orrore metropolitano della periferia texana (americana).

McConaughey sfoggia tutta la complessità del suo fisico perfetto, concedendo anche una scena di nudo, in cui libido ed edonismo si mischiano a lascivia, psicopatologia e impotenza. La devirilizzazione del personaggio di Killer Joe Cooper è tutta sintetizzata nei feticci machisti che si porta addosso: la pistola, il distintivo, gli stivali, lo stetson, le manette, i ray-ban, fino all’oggetto totemico per eccellenza, il corpo/fallo. La nudità di Killer Joe fa rima con impotenza – la scena citata infatti, che priva l’immagine nuda del fallo dell’attore, utilizza invece la pistola come sua protesi. A confermare la complessità sessuale del personaggio è anche il suo monologo a casa della giovane Juno Temple, quando le racconta di Texas e Oklahoma e di come un tratto texano dove lui andava a pescare da ragazzino fosse diventato territorio dell’Oklahoma, e chiude dicendo che perdere quella parte del proprio paese è stato come se ti portassero via la veranda di casa. L’espropriazione di un bene personalissimo, visto come emblema della propria identità, fa rima con la devirilizzazione del maschio occidentale/consumista, diviso tra immagine serializzata del proprio corpo muscolare e idea di verità contingente.

Il corpo pestato di Emile Hirsch, tra i più capaci attori della sua generazione, è invece un altro esempio di fisificazione del pensiero, a me molto cara, in cui il corpo dell’attore è l’unico vero mezzo dell’arte attorica. Non esiste anima, non esiste coscienzalizzazione del personaggio, lavorio interno, immedesimazione: esiste solo il corpo e i suoi gesti, il suo compendio fisiologico, la sua presenza scenica e le sue pose, le sue posture dinnanzi al mondo e agli altri corpi. Hirsch riesce così a creare un personaggio tipico, che non evolve né involve, barcamena tra il se stesso più disperato e il se stesso più infantile e sentimentale, immagine e corpo di un’America sclerotizzata dall’abbruttimento della provincia, dei suoi miti popolareschi e della propria sottocultura.

I corpi invecchiati e sgraziati della coppia Haden Church-Gershon sono lo specchio futuro della degradazione dei corpi giovani, sono loro stessi, nella loro fisicità individuale – Haden Church un gigante buono e tonto, la Gershon fatucchiera  libidinosa – a fare da coro greco alla disperazione del mondo di oggi, popolato da giovani sbandati senza identità alcuna e da uomini troppo impegnati a curarsi esteriormente per ammettere la propria vacuità.

Il corpo adolescente della nuova e giovane Lolita, vera femme fatale di un noir senza speranze, chiude il cerchio, e se concede solo un lampo della sua lascivia, abbonda in gesti schizofrenici, impulsivi e quant’altro che la fanno regina della fauna disperata della sua famiglia. Il corpo docile di tanti film diventa tra le mani di Friedkin la chiave di lettura di un’intera estetica e di un’intera poetica: la radicalità del Male e della Violenza nell’istintualità umana, e sua conseguente disperazione e perdita nel panorama sociale.

 

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