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Hugo Cabret

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Hugo Cabret

di OGM
10 stelle

Continua a raccontarci, Martin, come solo tu sai fare. Continua a spiare, furtivo, l’attimo fuggevole in cui l’incanto è ancora intatto, prima che la realtà aggredisca l’illusione. Continua a tuffare lo sguardo nei sogni in cui la Storia trova il suo significato più autentico e profondo, anche se sono solo fantasie, buone o cattive che siano. Il  Georges Méliès di cui si narra in Hugo Cabret forse non è quello vero, però è quello che ha inventato il tuo cinema, che è sempre stato un po’ bambino, sospeso tra i viaggi nell’immaginario e il desiderio di scoprire il mondo. Una bambola vivente, i cui ingranaggi sono i pensieri che potrebbero tradursi in parole, e invece diventano visioni. Un automa prodigioso, concepito per scrivere, e che invece disegna, come quello gelosamente custodito dal piccolo Hugo: un orfano che, negli Anni Trenta, vive nascosto nei locali da cui si manovrano gli orologi di una stazione parigina, e che ha ereditato dal padre soltanto quella misteriosa creatura meccanica. Era abbandonata in un museo, l’uomo l’aveva recuperata e riparata, e adesso è in attesa dell’ultimo pezzo necessario a farla funzionare: una chiave dal profilo a forma di cuore. Dire che l’amore è la chiave del mistero non è facile sentimentalismo, se per amore si intende la capacità di credere ciecamente in qualcosa che costa sacrifici, non è di nessuna utilità, e magari non ha futuro: come la magia dello spettacolo, quando l’umanità è abbattuta e non ha voglia di fantasticare. La Grande Guerra ha ucciso il mondo dei viaggi nella luna, dei mostri che appaiono e scompaiono, dei fantasmi, degli oggetti danzanti, delle teste che si moltiplicano e volteggiano nell’aria. È dalla tragica fine di questa meravigliosa follia che la storia di Hugo Cabret prende avvio, riportando alla luce quello strano uomo di latta, l’affascinante relitto di un gioco dolorosamente naufragato. Inizia così l’avventura di un ragazzino e della sua amica: una corsa contro il tempo e contro la superficialità della gente,  alla ricerca di ciò che di magnifico si nasconde dietro la miseria del destino. Tornare indietro, attraverso quel marchingegno tanto complesso e raro, significa risalire la corrente, sfidare l’usuale precipitoso corso delle cose, per ritrovare la verità che era in origine, e che purtroppo è stata travolta. La novità, si colloca, platonicamente, nel passato, in quel come eravamo che abbiamo voluto o dovuto cancellare. Come Georges Méliès, che a un certo punto ha abbandonato la sua passione, rinunciando per sempre ad esprimere il suo genio nei suoi artistici collage di fotogrammi. Il regista è diventato nemico acerrimo della memoria; e, in questo film, è, insieme all’inflessibile capo della polizia ferroviaria, il principale ostacolo alla voglia di libertà e di conoscenza che anima Hugo, e pochi altri insieme a lui. Tutto intorno si estende la normalità, incarnata dal viavai della folla tra i binari, che è fatta di oblio, di regole, di indifferenza. Di quadranti e lancette che scandiscono le ore e i minuti, mentre nessuno si chiede come ciò avvenga. Di leggi che puniscono i bambini ladri e inviano quelli abbandonati negli orfanotrofi, senza ascoltare le loro ragioni. Di individui che non provano più alcun stupore, quando vedono entrare un treno alla stazione, ed hanno dimenticato il brivido provato, una trentina di anni prima, dagli spettatori del famoso film dei fratelli Lumière. Solo Hugo, con la sua infantile imprudenza, può riportare alla mente quanto quell’evento sia, nel contempo, straordinario e pericoloso.

Questo film parla proprio di te, Martin, e dei tuoi personaggi, che crescono, cambiano e si rivelano alla vita attraverso l’incubo, l’azzardo, l’errore: vie di fuga che sono contrarie alle imposizioni della logica, ma, che, facendo passare l’uomo attraverso la durezza, lo accompagnano nel suo diventare grande. È la vertigine dell’essere, ribelle e irripetibile, quella che spinge la tua macchina da presa ad inseguire, a perdifiato, le figure che più ami, nelle ardite acrobazie a cui le costringe l’esistenza. Tu sei sempre lì, in mezzo a loro, le guardi da vicino e pensi che non ci vorrebbe nulla a renderle vere e possibili, perché la loro realtà è quella delle favole belle ma crudeli; quelle in cui, da che mondo è mondo, tutti noi siamo, in assoluto, più propensi a credere.

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