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Canti dal secondo piano

Regia di Roy Andersson vedi scheda film

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La recensione su Canti dal secondo piano

di precint13
10 stelle

Canzoni del secondo piano, ovvero l'eterogenesi dei fini di un'umanità già oltre l'incomunicante problema della logica del senso. Niente più paradossi, apocalissi, dis-sensi, ideali, strutture, fede capitalistica nell'essere-dentro. La religione, iconoclasta, non serve oramai. Lignee statue di Cristo vengono gettate su un un cumulo di macerie qualunque, rifiuti senza identità. La zombieficazione della massa s'invera nei suoi scarti, nella sua immondizia. E paiono quasi beati, quasi fortunati, gli zombie di Romero, almeno loro privi anche del più piccolo lumicino di consapevolezza, loro finalmente oggetti, loro spersonalizzati, loro superanti l'illusione di potersi guardare dentro, e non solo fuori, gioco di sguardi e di superfici.
Dov'è la follia? Il poeta internato non è forse, banalmente, il personaggio più sano (pardon, sanamente malato) del film?
Stringa temporale in cui l'illogica del grottesco guida silenziose inazioni, il film di Andersson raccoglie e ricodifica suggestioni kafkiane, forse beckettiane. I lunghi piani sequenza fissi (che alternano campi medi, lunghi e lunghissimi grazie al ricorso ad obiettivi a focale corta che neutralizzano le sfocature) sono forse tanto labirintici quanto certi strepitosi frutti maturati dalla penna ispirata di Borges.
Fissità, appunto. Fino a produrre mutevoli tableaux vivants crudelmente bunueliani. Quella della composizione visiva è una vera e propria arte e qui si trovano almeno due capolavori: la scena in cui la m.d.p. dimora imperscrutabile all'interno di un bar mentre fuori le strade sono intasate da interminabili code d'automobili (i cui fari sembrano combinarsi fino a diventare un lungo immobile - e perturbante - serpente) e quella ambientata all'interno della stazione (quando infinite teorie di persone spingono cataste di bagagli verso un fantomatico ingresso - ma forse non si muoveranno mai di lì, perché non c'è metà da raggiungere, tutto è congestionato come il traffico sulle strade del piano sequenza precedentemente citato) in cui si distruggono finalmente le abiette distinzioni tra prospettive frontali e laterali, nella vana speranza che esistano ancora coordinate spaziali cui ancorarsi. (Certo, poi c'è anche la scena del rituale di sacrificio o il bellissimo incipit ecc.).
C'è una soprendente soluzione di continuità in questo film, che (non) finisce senza esaurirsi. O meglio, più che finire si ghiaccia... Liquido che si solidifica, azzurro che diventa grigio. Il fuoco (che è ironicamente il motore immobile di una parte delle vicende, fuoco che brucia il negozio di mobili d'antiquariato del protagonista) viene lasciato fuori campo, con la sua carica propulsiva, vitale, dirompente. Non c'è spazio per i suoi colori fiammeggianti. Il grigiore che tutto pervade è anche cromatico. L'impasse è oramai cristallizato, è prigioniero nell'ambra. Non rimane che fermarsi a osservare, immoti e fissi, in lunghi piani sequenza che l'occhio non potrà mai mettere a fuoco.

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