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Cosmopolis

Regia di David Cronenberg vedi scheda film

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La recensione su Cosmopolis

di davidestanzione
6 stelle

Un adattamento estremamente fedele fin dalla citazione di apertura, quello che David Cronenberg ci offre di “Cosmopolis”,odisseico e allucinatorio racconto lungo (più che un romanzo breve) di Don De Lillo, opera dagli echi profondamenti attuali, addirittura più legati alle nostre odierne contingenze storiche rispetto ai tempi in cui il testo, una sorta di aggiornamento cibernetico-hi tech dell’ Ullisse di Joyce, fu scritto, nell’ormai “lontano” 2003.

Materia cronenberghiana fin nel midollo quella del libro, anzitutto. Approcciandosi al testo, i rimandi strutturali e visuali al cinema cronenberghiano appaiono svariati. Leggi “l’avevano ammazzato in diretta sul canale finanziario” e pensi istantaneamente a “Videodrome” e alla sue viscerali conurbazioni visive. Il meccanicismo proteiforme e sintetico delle scene di sesso ti rimanda violentemente a “Crash”, alla sua atonia materica e inquietante. E così via, in un caleidoscopio di variegato situazionismo accelerato.

E poi la prostata asimmetrica come metafora, come escrescenza interna inquietante. Elemento dissonante ed oscuro che denuda debolezze ignorate e fa sembrare microscopico qualcosa che era stato percepito come minimale: un elemento topico, il valore spropositato assegnato alla mutazione fisica, focale specie nel primo e primissimo cinema cronenberghiano. La risposta è sempre nel corpo in Cronenberg, ancora una volta e sempre, come si evince nel bellissimo e fluviale dialogo finale tra Eric Packer e la nemesi Banno Levin. Che, tra parentesi, è una delle pagine più brutali ed eterne del cinema del glorioso cineasta canadese, l’estrema e ibrida saturazione di un’ idea di cinema che tocca il suo punto di non ritorno, la sua vetta deflagrante ed assoluta. A livello teorico, una scena (e un film) di una provocatorietà enorme, quest’ultimo lavoro del regista di “Inseparabili”.

“Cosmopolis” è anche il film più fluviale e torrenziale di Cronenberg a livello di linguaggio verbale speso, anche più del precedente e mediocre “A dangerous method” (non è un caso che l’abbia girato poco prima: “Freud è finito, adesso tocca ad Einstein”, si legge a pag.2 del romanzo di De Lillo) . Al di là della funerea decantazione della morte del capitalismo da parte del cinema postmoderno, al di là di tutte le facili categorie critiche sbandierate, non si tratta di un dato da cestinare con superficialità.

L’ultimo Cronenberg, per intenderci il nuovo Cronenberg post - “Spider”, riconosce infatti nel fluido flusso mentale e verbale le radici profonde della violenta carnalità della nostra epoca. Un flusso di (in)coscienza che ci rende tutti vulnerabili, strutture spesso (dis)umane e malate come il protagonista Packer, in balia di concetti distorcibili e di vuoti simulacri riempibili attraverso la dittatura delle parole vuole e delle rivoluzioni, che creano e distruggono in un solo colpo mitologie e icone di cartapesta, o che tutt’al più non portano concretamente a compimento nessuno di tali due estremi.

Cronenberg, in realtà un tempo anarchico cantore anti-positivismo e oggi lucido e interessato osservatore del suo (presunto?) canto del cigno, associa questo flusso malsano un altro fluire quotidiano e incessante che ci riguarda tutti altrettanto da vicino, ovvero quello dei capitali e dei sistemi economici sempre più evanescenti. Rispetto ai corpi vessati e umiliati da entità cieche, oggi il male oscuro e serpeggiante lo si conosce e lo si percepisce: è la ricchezza divenuta immateriale ed eterea, una ricchezza digitale, impalpabile e metafisica, che connette capitale e tecnologia in un mefistofelico e inscindibile binomio. “Cosmopolis” ce la schiaffa davanti con virulenza, a costo di negare se stesso, all’interno di una costruzione sovversiva che proprio per la sua paradossalità è stata giustamente definita da qualcuno anticinematografica. In realtà l’ultimo film di Cronenberg, pur nella negazione del dinamismo proprio, per così dire, degli albori e della sostanza costitutiva della settima arte, si impone come cinema puro dei nostri tempi, essenza statica e scarnificata di volti (più che di corpi) che parlano (e parlano, e parlano…) in camera. Un saggio d’astrazione sublime, post-godardiana. Quel Godard che non troppo velatamente smascherò i cortocircuiti interni e ontologici del cinema di finzione così come noi lo concepiamo e fruiamo. Guarda caso.

“Cosmopolis” per tutti questi motivi è un film che, come il romanzo da cui è tratto, è premonitore, un lucido e drammatico delirio illuminante che parla di tutti di noi, anche se c’è chi vuole imbrigliarlo come statico esercizio intellettualoide. E’ un’ opera cervellotica, al massimo, non intellettualoide, come ha detto qualcun altro. E’ profondo, stimolante, filosofico al massimo grado.

Ma al capolavoro non si può gridare ai quattro venti, anzi. “Cosmopolis” è anche un film difettoso ed imperfetto. Un film più interessante che riuscito, e c’era d’aspettarselo un po’ a prescindere, forse, dato il romanzo da cui parte e la piega presa dall’ultimissimo Cronenberg. A prescindere dalla sua riuscita come tragica allegoria di un futuro che si è già fatto o si farà presente, il problema risiede anzitutto nella modalità dell’adattamento: Cronenberg, per sua stessa ammissione, tratta il romanzo del geniale scrittore newyorkese come una struttura chiusa, un sonetto shakespeariano cristallizzato nella forma ma al cui interno è possibile muoversi con estrema libertà creativa. Ma nell’entusiasmo frenetico con cui in appena sei giorni scrive la sceneggiatura, il nostro si lascia trascinare eccessivamente dal desiderio di voler farsi rapire dai suoi attori che recitano quegli splendidi dialoghi: tant’è che li estremizza in maniera eccessiva, logorando e sfibrando alcuni punti della narrazione che nel libro poteva disporre di una forza molto più concentrata e concettosa, e in definitiva di gran lunga più efficace.

La claustrofobia imposta alla messa in scena, che in una torbida atmosfera asettica riduce all’osso (molto più che nel libro) ogni rapporto col mondo esterno, rende il tutto un po’ più amorfo, sgonfiando il tutto ed precludendo in molti casi un respiro e una forza estetica che potevano essere ben altri. L’effetto straniamento arriva comunque, ma resta quella sensazione di amaro in bocca tipica delle ricerca visive probanti ma stringi stringi un po’ sterili. Soprattutto in alcune scene oggettivamente meno riuscite, come quella limitrofa al campetto di basket e quella del tanto agognato barbiere, vanamente estenuante. Cronenberg estremizza, sfilaccia, diluisce, logora anche, purtroppo. In compenso pennella con sufficiente classe implicazioni psicanalitiche nel rapporto con la moglie Elise Shifrin (interpretata da Sarah Gadon, anche in “Antiviral” di Brandon Cronenberg figlio di, in concorso a Cannes nell' "Un certain regard"), che affossano le loro radici nella negazione del sesso coniugale, nella tensione naturale del protagonista ad essere sempre in perenne stato di eccitazione e nel rapporto con la padre che nel finale scopriamo essere non poco problematico.

Tanto si è detto della prova di Robert Pattinson, ma qui il ragazzotto di “Twilight” se la cava davvero benissimo. E’ probabilmente il suo film migliore, insieme al Salvador Dalì di “Little Ashes”, proprio l’interpretazione che l’aveva imposto all’attenzione di Cronenberg. La sua glaciale impassibilità rende benissimo l’aspetto efebico consueto dell’uomo cronenberghiano, che qui entra in contatto con un’ umanità varia senza esserne mai del tutto compenetrato, da nessuno e in nessun modo. Le lande desertiche e malate dei suoi oscuri abissi interiori deragliano in una perversione psicologica sempre crescente, di natura ossessivo-compulsiva, fino a scantonare nell’autopunizione. Uno dei pochi momenti musicali del film coincide anche con un rarissimo indugio contemplativo sul volto impassibile del protagonista, del quale per il resto, sommersi come siamo dai dialoghi, abbiamo modo di immaginare davvero pochissimo.

Come scrive Stefano X. Ricci nel suo volume “Umano e post umano – Appunti sul cinema di David Cronenberg”: “L’ Uomo Cronenbergus, in definitiva, non è che l’anello mancante fra l’Homo Sapiens del presente e il Superuomo (uomo bionico, uomo-macchina) del futuro”. Uomo limousine in questo caso, dato il sincretismo simbiotico che in “Cosmopolis” lega metaforicamente (?) l’uomo al suo lunghissimo, sproporzionato veicolo. A dimostrazione di come ben pochi autori sappiamo sempre personalizzare i propri film come Cronenberg, insistendo sui punti cardine e ricorrenti della propria poetica anche a costo di risultare e estenuanti e ripetitivi. E anche in progetti un po’ su commissione come questo, patrocinato da Paulo Branco, lo storico produttore portoghese di un’ altra leggenda, Manoel De Oliveira. Visto anche il precedente “A dangerous method”, si spera comunque che il film su commissione non sia diventato il nuovo accomodante orizzonte della filmografia di Cronenberg.

“Cosmopolis”, ad ogni modo, è l’ultimo baluardo cinematografico di un cerebralismo decostruibile nella sue parti, ma non del tutto smantellabile: contiene un senso di misterica forza ignota che ne costituisce sicuramente il fascino e la grandezza. Quella grandezza che risiede nella dialettica eterna tra il caos e l’armonizzazione, e che spesso si risolve nella coesistenza e nella compresenza dell’antinomia, nella sintesi. Un po’ come la sintesi tra i furori caotici di un Pollock e quelli più normativi e geometrici di un Rothko, due artisti chiave della arte americana ed estrapolabili dai titoli di testa.

“Cosmopolis” però, in estrema sintesi, non ha il dinamismo selvaggio di cui parla al suo interno in termini economico-speculativi. E questo forse è il suo più grande limite.

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