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Millennium. Uomini che odiano le donne

Regia di David Fincher vedi scheda film

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La recensione su Millennium. Uomini che odiano le donne

di M Valdemar
4 stelle

Il prologo di Millennium: Uomini che odiano le Donne è nero, liquescente, intimidatorio, cibernetico, fiammeggiante, ritmato da una cavalcata musicale ossessiva e martellante. Immagini e suoni che si rispondono e si fondono in una materia digitale viscosa che penetra malignamente nelle fibre nervose dello spettatore.
Un videoclip geniale, potente, che sembra voler metter in chiaro le cose: è come se David Fincher prendesse immediatamente le distanze dal precedente adattamento svedese e dimostrare con forza furiosa che il suo film è diverso, è “altro”, è meglio. L’obiettivo, osservando anche il resto, è stato ampiamente raggiunto.
Ma, stranamente, forse per caso o per scherzo, già il pezzo musicale stesso è un rifacimento, trattandosi di una cover, per quanto riuscita, di Immigrant Song dei Led Zeppelin. Fantastica versione, una scelta efficace e suggestiva (“We come from the land of the ice and the snow, / From the midnite sun where the hot sprinsg slow” recitano i primi versi dell’immortale canzone). Opera di quel talentoso e poliedrico artista di Trent Reznor (in coppia con Atticus Ross, così come avvenuto per The Social Network sempre di Fincher), ovvero colui che ha fondato e portato avanti il progetto dell’imprescindibile band Nine Inch Nails (un amico hacker della protagonista indossa una maglietta col loro logo). Alla voce c’è Karen O degli Yeah Yeah Yeahs: buona prova, anche se, per quanto filtrata e manipolata, con Robert Plant è una battaglia impari, persa in partenza per chiunque.
Ad ogni modo la colonna sonora è eccezionale, multiforme, ispirata. E’ senz’altro un punto (esclamativo) a favore dell’intera operazione.
Si diceva poc'anzi dell’esigenza impellente del regista di voler differenziarsi dal primo Uomini che odiano le donne: a più riprese sia lui che alcuni attori hanno dichiarato che il suo non era un remake dell’altro, bensì una nuova trasposizione del celeberrimo romanzo di Stieg Larsson. Sarà. Certo avere una base d’appoggio su cui poter lavorare, apportandovi le opportune varianti e le proprie idee non è affatto male, tutt'altro.
A voler paragonare le due opere, il primo ne esce con le ossa rotte: sinceramente, il confronto è impietoso. Se quello svedese, pur discreto, manifestava esplicitamente le origini di un impianto televisivo, con uno script “diluito” e talora banale e messa in scena e costruzione delle atmosfere poliziesche non lontane da una serie come Wallander, questo hollywoodiano è cinema allo stato puro. A partire dalla scrittura, più concisa, espressiva, brillante, tesa alla descrizione e al disvelamento di mondi e sistemi dall’apparenza placida ma dall’animo malato e corrotto. Canalizza, inoltre, tutte le sue energie all’avvaloramento di quella che è il vero punto di forza, nonché motivo del successo planetario dei libri di Larsson, ossia Lisbeth Salander. Curiosamente, la sceneggiatura del film di Fincher (a firma Steven Zaillian) è anche più fedele al romanzo, di cui è riuscita a coglierne e sfruttarne le tematiche più forti.
In ogni singolo fattore Millennium: Uomini che odiano le donne (titolo originale: The Girl with the Dragon Tattoo) è meglio dell’altro: il lavoro alla regia è eccellente e, unita a una fotografia magnifica e precisa, ha una resa dinamica e perforante, che squassa e seduce, violenta e attrae. La direzione degli attori è perfetta, anche qui c’è poco da fare. Daniel Craig, che pur non è un genio della recitazione, ha vita facile con l’omologo scandinavo, lo sbiadito Michael Nyqvist, per non parlare degli altri attori, a cominciare dal superbo Stellan Skarsgard per finire con un mostro sacro come Christopher Plummer.
L'attenzione, però, è naturalmente tutta volta alla figura di quest’eroina così atipica, tragica, eccezionale, che ha decretato il trionfo della saga letteraria prima e cinematografica poi: Lisbeth Salander. Già, perché se c’era un elemento del film svedese che è riuscito con forza ad insinuarsi nell’immaginario collettivo - anche, e soprattutto da un punto di vista iconografico - è proprio la caratterizzazione che Noomi Rapace ha saputo fare di Lisbeth, la ragazza col tatuaggio del drago stampato sulla schiena e col marchio di drammi inconfessabili impressi nell’intimo.
Rooney Mara si dimostra parecchio brava (ma da qui a essere candidata all’Oscar …), aiutata pesantemente, comunque, da un make-up curatissimo, in particolare con quegli occhi impressionanti per come appaiono quasi privi di ciglia e sopracciglia (che sono in realtà decolorate), tali da ottenere uno sgradevole ma accattivante effetto “teschio”. Quasi uno Zio Fester, con qualche “irrilevante” differenza anatomica …
Quindi la Mara fa il suo, e il ruolo, data la natura stessa del personaggio, è difficile. Ma, come si evidenziava, l’immagine di Noomi Rapace non può essere superata: è lei Lisbeth Salander. L’aria incazzata, il muso indurito e fragile, i piercing, il look (death)punk, la risolutezza, l’incapacità di essere “normale”. La copia è venuta bene, ma è una copia. Venuta dopo, dunque, troppo poco dopo.
Già, qui sta tutta la questione, che è controversa, dibattuta, discutibile: l’esistenza stessa del rifacimento istantaneo di Fincher. Il suo, si ribadisce, ove fosse necessario, è un gran film, vigoroso, asciutto, avvenente come una bellissima donna pericolosa. Ma che senso ha? Anche fosse soltanto per il tempo: due anni sono troppo pochi, il romanzo di Larsson ha avuto risonanza mondiale, il film svedese comunque ha ottenuto sufficienti riscontri di pubblico. Non è certamente una pellicola asiatica o dell’Europa dell’Est che nessuno (o quasi) conosce. E l’icona Noomi-Lisbeth è andata oltre il percorso lettarario-cinematografico, per via della massiccia diffusione in rete.
La produzione, la regia (di uno dei migliori in circolazione), sono di pregio, almeno non s’è visto un pietoso remake, come sovente accade. L’alto rendimento dell’opera in oggetto però non può cancellare dalla memoria quello che è venuto prima. Un attimo prima.
Il confronto è improponibile, s'è detto, ma, per quanto (abilmente) scansato, c'è. E' inevitabile.
Lo avete fatto meglio, bravi, ma quel vostro arrogarvi ogni diritto di dover a tutti i costi (in ogni senso) fare meglio e sbatterlo in faccia ai “miseri” dilettanti di turno (e magari perché state annegando in un gorgo creativo di crescenti dimensioni), è inaccettabile e indisponente.
In conclusione, e per essere più sintetici: The Girl with the Dragon Tattoo è tanto bello quanto inutile.
Fossi uno “svedese” m’accenderei e gli darei fuoco. Meta(eu)foricamente, s’intende.

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