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Il mostro

Regia di Luigi Zampa vedi scheda film

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La recensione su Il mostro

di lamettrie
8 stelle

Un buon thriller, anche se ricco di alti e bassi. Ha un ritmo imperterrito, che nel finale diventa, opportunamente, anche vertiginoso. Annovera ottime firme: Zampa (che qui a 72 anni spara la penultima cartuccia della sua notevole, e troppo sottovalutata, carriera); musiche di Morricone (ottime per sottolineare l’inquietudine della sorpresa della trama); scenografie di Dante Ferretti; soggetto e sceneggiatura di Sergio Donati. Parlando dei “bassi”, indubbiamente c’è la grana grossa di tante rese: in particolare quella del mondo calcistico, davvero dozzinale, ma in generale in tutta la stesura del film, sin troppo corsiva (come anche nelle scene che portano all’uccisione della madre). Del resto ciò si arguisce ancor di più dalla scelta di Dorelli come protagonista: attore non di livello, attorniato in questo film da gente che recita anch’essa a livello commerciale sebbene in modo sciolto ed efficace. Inoltre la versione cinica della realtà è resa senza le sfumature che sarebbero occorse. Veniamo pero agli “alti”, che sono di più. Notevole è l’aspetto psicanalitico: il mostro è il figlio, che è tale perché è cresciuto in un contesto di tristezza, dovuto alla relazione infelicissima dei suoi genitori. Tra cui preferisce il padre, nonostante questi sia un modello educativo pessimo: riuscita è la descrizione di un uomo incrudelito dalla vita, pienamente risucchiato nell’orrore occidentale della competizione capitalistica, ben messa in evidenza nella sua scelta, del tutto coerente, di campare con il giornalismo. Quest’ultimo mondo è quello meglio tratteggiato da quest’opera: si era nel ’77, ma c’è tutto lo squallore dello sfruttamento della morbosità e degli istinti peggiori degli uomini, del vellicamento dell’ignoranza del pubblico, che sono la leva migliore nella società di massa (il cui inizio è datato già dai primi del ’900). Notevole è l’indifferenza rispetto alla morte del padre del padrone: assassinio che freddamente è visto come fonte di possibile guadagno (per vendere altre copie) e timore (solo!) per non potere andare in stampa e guadagnarci (a causa dell’intervento della polizia); quasi assenti sono la perdita affettiva e il terrore oggettivo del fatto. Significativa è la contrapposizione, nei dialoghi, tra il modello del padrone della casa di produzione, che comunque ancora si vergogna di lucrare sulla porcheria, e il figlio, che proprio non conosce questa vergogna. Quest’ultimo rappresenta proprio l’evoluzione generica più riuscita del milanese, nel senso deteriore del temine: colui che, in nome del profitto individuale, è disposto a mandare al macero qualunque aspetto edificante della vita, ovvero bello e perciò poi anche apprezzabile sotto il profilo culturale. Il contrasto, infatti, è ancor più chiaro perché a non volere scendere sotto un certo livello è proprio il vecchio, il quale è comunque padrone di un “impero” editoriale che culturalmente fa davvero pena; e tanto più fa pena, quanto più permette soldi. Ciò rende l’idea dell’indecenza del figlio, ma anche dell’incivilita dei colossi dell’informazione, di cui qui c’è cenno: imprese capaci di sfornare di tutto, e talmente diversificate da poter sfruttare qualunque porcheria pur di fare audience e vendere. Il pubblico è un pollo idiota da spennare, che si tratti di pubblicazioni per bambini o donne, serie e d’intrattenimento: ce n’è per tutti i gusti, ma l’importante è rincorrere la falsità e il pettegolezzo (didascalico è il pezzo menzognero sulla tresca di Morandi). 43 anni fa, insomma, era chiara l’ulteriore deriva umana cui i mass media avrebbero cercato di condannare il mondo: un peggioramento dovuto solo all’avidità di pochissimi individui, già ricchi. Da decenni la televisione ha ampliato queste potenzialità negative a dismisura: con un’anticultura della disumanizzazione, i cui esiti nefasti forse non erano ancora calcolabili con esattezza negli anni ’70 (anche per una parvenza di pudore che via si è estinta sempre di più), prima della illegale concessione dell’esistenza delle tv commerciali nazionali. 5 anni prima Bellocchio aveva denunciato, con tutt’altra classe e qualità, la programmatica e coerente (purché non si veda) disonestà del giornalismo di carriera, ne “Sbatti il mostro in prima pagina”: anche lì c’erano Donati e Ferretti a creare l’ambientazione, sotto il profilo rispettivamente del pensiero e della concretezza. Comunque in quest’opera di Zampa è apprezzabile anche la realistica negazione della verità, sacrificata tanto dal giornalismo per il profitto, quanto dalle forze dell’ordine per la semplice carriera (esemplare è la negazione, da parte di colleghi, di superiori e di inquirenti, di aver visto la prima lettera minatoria). Il regista spinge, come forse non mai, sulla resa provocatoria, sfruttando in modo intelligente il sensazionalismo. Ma si era negli anni ’70, che come il film ricorda sono quelli del terrorismo… forse, al regista romano, non sono state irrilevanti, per questo clima estremo e fosco, le gesta di allora di suo nipote, Renato Curcio. Tornando al figlio, questi compie i suoi delitti pur di vivere con il padre. Ma il finale lascia aperta ogni interpretazione sui secondi finali, appunto. Di certo c’è lo squilibro mentale di un adolescente che fa di tutto (financo assassinii seriali), pur di aggrapparsi all’unico straccio di affetto importante che ha, per quanto ben poco autorevole. La crudezza può apparire eccessiva, ma neanche così tanto in un contesto educativo rattristante come quello del capitalismo, che spinge inevitabilmente per la concorrenza amorale; e lì il disturbo psichico, purtroppo, non è così peregrino. E i suoi effetti, nei delitti, sono resi splendidamente dalla fotografia, oltreché dall’accompagnamento musicale.

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