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La morte viene da Scotland Yard

Regia di Don Siegel vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La morte viene da Scotland Yard

di axe
8 stelle

Londra, fine XIX secolo. L'anziano sovrintendente di Scotland Yard Grodman apprende, rimanendone sconvolto, di aver commesso un errore d'indagine il quale è stato causa della morte di un innocente, giustiziato poco prima. Si dimette ed è sostituito dal più giovane e tronfio Buckley. Di lì a poco, all'interno della cerchia di conoscenti di Grodman, si verifica un omicidio; scoprire colpevole e movente spetta al nuovo inquirente; Grodman osserva sornione. Don Siegel, maestro del poliziesco statunitense, traendo ispirazione dal romanzo "Il Grande Mistero Di Bow" dello scrittore Israel Zangwill, fa il suo esordio alla regìa di un lungometraggio dirigendo un giallo molto particolare. Le cupe atmosfere di un'Inghilterra vittoriana fanno contrasto con un certa ironia la quale permea la narrazione. La vicenda "poliziesca" è costruita sull'assassinio di un individuo che diversi altri, all'interno di una cerchia ristretta, avevano interesse a veder morto. Il sostituto di Grodman, Buckley, s'arrabatta per trovare una soluzione del caso; nonostante sia ormai un privato cittadino, anche Grodman entra nell'indagine, portando allo scoperto non solo l'incapacità di Buckley, ma anche l'inevitabilità della fallacia umana. E' questo il tema portante dell'opera; La scelta effettuata circa il colpo di scena finale, connesso all'identità del colpevole - che lo spettatore può indovinare grazie a buone capacità intuitive e pochi indizi sparsi qua e là - ha lo scopo di rendere evidente la difficoltà, se non l'impossibilità, nel raggiungere certezze in merito al verificarsi di un fatto, in assenza di riscontri oggettivi, quali, ad esempio, dimostrazioni sensoriali. Il ruolo che Grodman, ormai anziano ed in pensione, pertanto non più utile nell'economia dell'evoluzione delle procedure investigative e giudiziarie, costruisce per sè stesso è, in un certo senso, quello dell'"agnello sacrificale", condiviso con la, ovviamente inconsapevole, vittima. Il regista è abile nel darne atto allo spettatore; questo tema s'impone su quello che, a prima vista, sembra essere il tema principale, l'indagine. I possibili moventi hanno consistenza, ma non convincono fino in fondo; gli stessi personaggi hanno un'espressività artificiosa, sembrano in balìa degli eventi, conducono ragionamenti molto lineari, dando l'impressione di non essere in grado di valutare ipotesi oltre l'ordinaria prevedibilità. L'autore non manca di ricordarlo, sono in gioco le vite di persone, le quali, in caso di condanna, ottengono un appuntamento con il boia. Dunque, delle due, l'una. Un sistema giudiziario, che sappiamo essere strettamente connesso, ad un preciso contesto politico, sociale, morale, può accettare la morte di un soggetto potenzialmente innocente, salvo attrarre su di sè le inevitabili ed intrise d'ipocrisia, critiche popolari, qualora un errore fosse reso noto, oppure modificarsi, alla luce della consapevolezza dei limiti umani, molto semplicemente abolendo - o limitando fortemente, l'applicazione, riservandola a casi molto particolari, della - pena di morte ? L'autore s'è espresso, allo spettatore ogni ulteriore considerazione. Grodman è interpretato dal paffuto Sydney Greenstreet. Lo affiancano sul set Peter Lorre (l'amico Emmric), George Coulouris (Buckley), Joan Lorring (Lottie, sorta di "femme fatale"). Tinte cupe avvolgono le scene; la colonna sonora a volte lugubre e alcune sequenze, quale, ad esempio, quella che mostra una esumazione, sono tipici dell'horror. L'intreccio è quello di un giallo classico. Verificatosi un assassinio, si ha una descrizione dei personaggi - i quali si conoscono tra loro - potenzialmente colpevoli; si fanno deduzioni, s'ipotizzano moventi, legati a rapporti conflittuali, a volte morbosi, nascosti da una patina di perbenismo tipica della borghesìa dell'epoca. Trovato un colpevole, la vicenda sembra chiudersi. Ma così non è. Le interazioni tra personaggi avvengono in pochi ambienti, con dialoghi serrati. La messa in scena ha un impianto decisamente teatrale. "The Verdict" - titolo originale - è un'opera profonda; l'autore usa i canoni del genere giallo classico per introdurre lo spettatore al tema che maggiormente gli preme; ad una prima valutazione, esso può sfuggire, ed il film sembrare un poliziesco di maniera, privo di elementi di particolare interesse. Una più intensa riflessione, stimolata dallo spiazzante epilogo, dà al racconto una chiave di lettura in grado di farne comprendere la portata, l'importanza, e, decisamente, l'attualità.

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