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Il paese delle spose infelici

Regia di Pippo Mezzapesa vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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La recensione su Il paese delle spose infelici

di giancarlo visitilli
8 stelle

La prigionia dei corpi. Quelli dell’età tipica dell’innocenza. E l’attesa di chi, la vita, l’ha messa in sospensione. Dei luoghi. Ancestrali e sospesi, fra cave, dirupi, interlinee e congiunture metalliche, che smorzano il paesaggio. E intanto la fuga.

Se queste sono le premesse, al suo primo lungometraggio, dopo i suoi lavori precedenti (Zinanà 2003, Come a Cassano 2006, Pinuccio Lovero – Storia di una morte di mezza estate 2008), per il regista, Pippo Mezzapesa, non sarà una passeggiata dover affrontare una seconda prova, in grado di  superare quest’ultima. Inaspettatamente autoriale. Perché Mezzapesa, che scrive, questa volta a sei mani, insieme alla sceneggiatrice fidata, Antonella Gaeta e ad Antonio Leotti, è un autore.

Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Mario Desiati, di cui conserva solo l’anima narrativa, ruota intorno ai due giovani protagonisti, Veleno e Zazà, alle loro partite di calcio, nella Cosmica Football Club e alle loro scorribande in motorino, nelle campagne bruciate dal sole, dissetate dall’acqua e contaminate dai fumi delle industrie. Nell’aria un’insana infelicità endemica, quasi genetica, che sembra colpire tutti gli abitanti. E come in ogni poesia, perché il film di Mezzapesa è poesia dello sguardo, ci sarà Amore a governare le cose, il tempo e gli uomini: Annalisa è una sorta di Beatrice, bellezza pura, misteriosa e sensuale, fatale al modo di come l’hanno cantata i poeti maledetti. Ma non per mezzo suo la fatal quiete, perché l’unica verità a cui conduce il minimalismo di una scrittura che lavora per sottrazione, è che l'infelicità venga proprio dall'impossibilità di sapere che cosa sia davvero la felicità. Veleno e Zazà, a tal proposito, (con)vivono nella ricerca, l’uno, sporcandosi l’anima da bravo ragazzo e, l’altro, cercando di scoprire s’è vero che per lui c’è un destino diverso da quello del fratello spacciatore (interpretato da un convincente Roberto Corradino).

In questo, Mezzapesa/Gaeta/Leotti mostrano innanzitutto un’onestà intellettuale: i loro personaggi sono di carne ed ossa, quotidiani, veri, ma che non trasudano quel maledettissimo carattere tipico di chi scrive del Sud. Semmai, fra il pulviscolo impalpabile, polveri sottili, degrado urbano, declino culturale e qualunquismo politico, si realizza, nonostante tutto, quell’”affascino” dei piccoli gesti, le carezze solo pensate, e le parole taciute.

Mezzapesa, i cui film, da sempre, son fatti dalla grande maestria di un direttore della fotografia eccellente (Michele D’Attanasio) e dalle scenografie inusuali (Sabrina Balestra), sembra seguire quell’unico intento, come si trattasse della sottile linea rossa, quella del puro sentimento e dei ricordi, che sembrano procurargli la malattia di chi “non si esce dagli anni Novanta”, fra la sensazione bruciante di ginocchi sbucciati, le luci del tagadà, a due passi fra gli odori di campi appena arati. A sorvegliare su tutti, il fascino di una Madonna laica, ma soprattutto priva di grazia felice, affissa come le spille, che sempre “portano dolori”.

Menzione speciale va ad un cast semplicemente perfetto e straordinario (se potessimo assegnare le coppe, la Volpi la consegneremmo a Capodiferro).

Fra carrellate lungo la sessualità irrefrenabile; dolly capaci di strapiombare il disincanto e lo spaesamento nei confronti dell’altro sesso, il primo lungometraggio di Mezzapesa si rivela opera importante, intrisa di quello stesso cinema autoriale, da sempre evidente nel suo sguardo, da Truffaut a Gaglianone, passando per il primo Capuano e giungendo a Sorrentino. Ma di notevole carattere personale, con una spiccata poesia dei movimenti.  

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