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Faust

Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film

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La recensione su Faust

di OGM
8 stelle

La materia è tutto. Un tessuto poroso, con le fibre infiltrate di umida polvere, a testimoniare l’ammorbante onnipresenza dell’inutilità. Le microscopiche scorie della realtà vissuta assorbono la luce, e si fanno nebbia, attraverso la quale l’intellettuale Faust cerca di fare breccia col pensiero. La stessa azione della mente, però, è pesante, e ricade al suolo, schiacciata dalla consapevolezza che tutto si esaurisce in una fisicità deperibile e dalla geometria predeterminata. La sequenza d’apertura introduce un discorso che si sviluppa con la freddezza scientifica di un’autopsia compiuta sulla propria esistenza: uno sguardo impersonale, a tratti obliquo e furtivo, e sempre distaccato, osserva dal di fuori l’alchimia del proprio essere, che è una miscela naturale, odorante di erbe officinali e dei misteriosi fumi di  ataviche superstizioni. Umana è la ragione che dubita, umano è lo spirito del diavolo, ed umani sono tutti i comuni mortali, i santi e gli assassini: ogni creatura è immersa nella stessa carne (e nello stesso attaccamento al cibo e al denaro), perché, nella totale mancanza di senso, tutto si riduce ad un grande meccanismo universale, che raccoglie, in un unico flusso fisiologico, l’intero ciclo della vita e della morte. Il Faust di Sokurov, come i protagonisti dei precedenti capitoli della tetralogia (Moloch, Taurus, Il sole) è il solitario profeta dell’attesa, dentro un mondo che sembra essersi fermato alla stagnazione dell’evidenza: intorno a lui l’ansia di scoperta si spegne nella volgare certezza empirica, mentre il suo cuore si ribella e continua ad inseguire un desiderio che si è fatto utopia ed una rivelazione che tarda ad arrivare. Il dramma di Faust è voler seguire il nobile impulso dell’eros in un’epoca che ha rinunciato a chiedersi perché, ed ha perso di vista la questione dell’anima,  sottomettendosi al crudo monopolio del corpo. Faust, senza più un soldo, si ritrova col calamaio vuoto, così che il sogno non ha più modo di esprimersi a parole, e la conoscenza delle cose invisibili non può più essere trasmessa sulla carta.   Al posto dell’inchiostro, rimane solo il sangue, con cui sporcarsi le mani negli attimi di stupidità, come quando si fruga nelle viscere dei morti  per rimestare nel già visto, come quando si uccide e per sbaglio e per futili motivi, o come quando ci si vende al primo venuto, accecati dalla disperazione. La poesia, privata delle ali, teme l’incontro con l’attimo che potrebbe diventare eterno ed inchiodarla al suolo. Per questo se ne va raminga, per non farsi catturare, e per consegnarsi ad una sconclusionatezza che riapre mille volte la possibilità di credere e sperare. Il demonio-usuraio che accompagna Faust nel suo viaggio attraverso l’inferno terreno è il pungolo che lo fa restare inquieto, che lo istiga a continuare a cercare. Quello spirito malvagio pensa che solo così, conducendolo attraverso un percorso cosparso di errori fatali, di frustrazioni e di squallore, potrà convincerlo dell’assoluta vanità della vita, ed impossessarsi di lui. La tentazione è la fiamma che tiene accesa la volontà di ritentare, impedendo all’individuo di accontentarsi e di raggiungere così la pace interiore. Il peccato è la strada che porta al progressivo logorio della nostra forza d’animo, costringendoci ad una incondizionata resa alla negatività. Questo è l’epilogo a cui Faust si ribellerà, pur davanti alla irrevocabilità del patto stipulato col diavolo, e al suo definitivo isolamento in un aldilà deserto ed impervio.  Per lui, eroe di un’irriducibile intraprendenza, quel paesaggio lunare si trasformerà in una sterminata terra in cui esercitare la propria libertà e la propria volontà di esplorazione e conquista. Il paesaggio inquadrato nella prima scena raffigura un’umanità rinchiusa entro gli stretti confini di un paese cinto da mura: il claustrofobico punto di partenza di un cammino che per Faust si avvolgerà a lungo su se stesso, facendogli sperimentare ripetutamente l’asfissia dell’inerzia, prima  di dimostrargli, con la svolta finale, che l’unica vera salvezza coincide con l’evasione verso l’ignoto.

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