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On the Road

Regia di Walter Salles vedi scheda film

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La recensione su On the Road

di scapigliato
7 stelle

La beat generation spiegata alla iGeneration. Il risultato è ancora dubbio, ma ciò che conta è che il non-capolavoro di Walter Salles – un film come Central do Brasil non lo rivedremo più – sa colpire sui tre elementi cardine del testo kerouachiano, senza però centrare appieno il bersaglio.

Innanzitutto il linguaggio. La celebre “prosa spontanea” di Jack Kerouac, figlia dello stream of consciousness, la “prosa automatica” dei surrealisti tanto cari al giovane franco-americano, viene ricreata dal montaggio sincopato, dalla regia animosa, camera a mano, incasinata e pseudo neorealista, fino alla giustapposizione senza causa/effetto di molte scene, sequenze o sole inquadrature. Un esercizio anche fin troppo facile, molto estetico, senza una vera e propria anima, senza un vero e proprio graffio dialettico, un sussulto antiretorico. Un esercizio di stile, inefficace, ma che si abbina sufficiente all’idea di “prosa spontanea” perseguita da Kerouac.

In secondo luogo, il mito della strada. Senza di essa On the Road non sarebbe tale. L’imperativo del viaggio, a volte senza una vera meta,  è la struttura narrativa su cui innestare tutta la polpa intellettuale, le derive esistenziali, gli interrogativi assoluti, le paure e le gioie e le speranze e i dubbi di un’intera generazione. Attraverso il mito del viaggio, On the Road sostiene la tesi per cui l’importante non è arrivare, ma andare. E anche nel film di Walter Salles la strada è coprotagonista del film. Non solo ad essa vengono regalate inquadrature lunghe e bellissime, di un certo fascino rodie quasi seventies, ma è su di essa che si snodano le vicende intime e personali dei protagonisti. Anche se concretamente si sviluppano in determinati luoghi – case, stanze, bar – è comunque sulla strada che nascono e in cui pongono le basi per sussistere anche in altri luoghi umanizzati, civilizzati, artificiali. Dopotutto, nonostante il cemento, la strada è pura natura, una modificazione del paesaggio che continua a renderlo tale. La strada, infine, viene narrativizzata da Walter Salles con cognizione di causa, senza strappare la scena ai personaggi, ma  senza nemmeno riuscire a creare il mito immaginifico intorno ad essa. Ecco perché quello di Salles è un film riuscito a metà.

In terzo luogo, un elemento fondamentale sia del testo che del film di Salles è Neal Cassady. L’oggetto del desiderio. L’uomo-fallo che tutto attrae intorno al proprio totem, alla propria figura tonica,  fisicamente e idealmente monolitica: infatti non cambia. Cassady vive e cresce nel suo monolitismo come uno dei migliori villain da film western – e On the Road libro e film, sono dei western. Garrett Hedlund è stata la migliore scelta del cast – se mettiamo da parte la bellissima e intrigante Kristen Stewart finalmente liberata dalle catene moralistiche della saga conservatrice di Twilight e tornata giustamente alla sensualità esibita e divertita di Into the Wild.

Leggenda vuole che dovesse essere Marlon Brando a interpretare l’ipotetica trasposizione cinematografica di On the Road a cui stava lavorando lo stesso Kerouac. Ma le cose si sono un “tantino” protratte ed ecco che la scelta cade su un attore abbastanza ai margini dello star system beefcake, poco piacione, poco patinato, poco gossippato. Il suo Dean Moriarty, che è poi Neal Cassady, è tutto fisicità. È tutto fallo. È tutto nervi, non muscoli edonisti alla McConaughey alla Tatum alla Hemsworth. È tutto nervi. Non è depilato sul petto, e porta il pelo con la disinvoltura di un adolescente. È, infine, vero maschio. Maschio dalle pulsioni omoerotiche. Maschio dalla copula facile, ossessiva, compulsiva. Maschio adatto più all’amicizia virile che alla vita di coppia. L’amico che tutti vorremmo accanto durante un viaggio, come dimostra Jack Kerouac mangiandoselo con gli occhi, scrivendo On the Road solo per parlare di lui e di loro due. Quale altra dichiarazione d’amore conoscete migliore della narrativizzazione del proprio inconscio emotivo, sessuale, magmatico e caotico? La terapeuticità della scrittura, soprattutto quella coadiuvata dal flusso di coscienza, fa di Kerouac un Omero più slegato, più libertino, meno castrato, e gli permette di dire l’indicibile anche senza esagerare. Cosa che invece poteva fare benissimo il regista di questa prima trasposizione cinematografica, ma che invece fallisce clamorosamente.

Mentre Bernardo Bertolucci con i suoi sognatori mostrava ciò che andava mostrato, esibendo così le parti del discorso corporale come spontaneità del fisico e del corpo attorico, Salles indugia solo sul retro nudo di Hedlund, lasciando fuoricampo ogni occasione di nudità integrale. L’uomo-fallo Cassady, senza poter esibire con tempi di lettura anche antinaturalistici il proprio membro, non riesce ad essere fino in fondo il catalizzatore dell’intera opera pensata da Kerouac che, con la ricerca del padre perduto e l’incontro/scontro con la wilderness americana, voleva dare all’irrisolto omoerotico, ed esplicitamente al simbolismo fallico di una Nazione virile, il suo corrispettivo letterario e quindi mitologico come in Melville, Twain, Cooper ed altri.

Ecco che l’On the Road di Walter Salles, che castra, ahinoi, anche la nudità della Stewart, che ci prende tutti in giro con un’orgia sotto le coperte – chi di voi lo fa sotto le coperte?? – che in una doppia e audace masturbazione on the road non mostra nulla mentre Bertolucci, sempre lui, in Novecento aveva affrontato il tabù con una ripresa a inquadratura fissa, campo totale, quasi a piombo, su Robert De Niro e Gerard Depardieu nudi con Stefania Casini al centro. Questo Walter Salles, si diceva, pudico e censore, impedisce all’elemento cardine dell’opera kerouachiana, il fallo Cassady, di sussistere.

Film riuscito a metà per le troppe frenate, per l’esagerato zelo estetico, On the Road ha il pregio di essere godibile, guardabile, sia da chi ama il cinema semplice e fatto con tutti i suoi crismi, sia dalla iGeneration che predilige clip rapide, veloci, serializzabili e riproducibili, ma incapace di apprezzare lo sguardo contemplativo dei grandi maestri e di trovare un’anima, un immaginario cosmico in cui perdersi. Salles, in questo, un po’ ci mette del suo, ed è difficile perdersi e sognare con il suo film. Colpisce, sempre a metà, solo la figura ossessiva e fallica di Cassady, centro propulsore di tutti gli istinti e tutte le emozioni del gruppo, corpo indomito diviso tra eterosessualità compulsiva e frenetica e un’omosessualità trasgressiva, ma cercata, voluta, desiderata; oggetto del desiderio autoriale e di tutte le urgenze narrative del testo letterario, qui smorzate nella privazione dell’esibizione totale dell’uomo-fallo.

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