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Gambit

Regia di Michael Hoffman vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Gambit

di alan smithee
6 stelle

Va bene ok ci sono i Coen alla sceneggiatura e dunque è d'obbligo predisporsi a volare alto, protendere verso le complesse macchinazioni folli della mente umana, disporsi a sorvolare le ironiche istrionità della personalità piu' sfaccettata che porta ebbrezza, sangue e geniali manifestazioni di eccentrica personalità: tutte tracce sublimi che da sempre popolano le pellicole dei due meravigliosi geniali fratelli.
Certo, è lecito e ci va bene predisporci su questi livelli, ma anche un genio a volte avrà diritto di volare un po' più in basso, un pò più rasente al suolo, scegliendo di divertirsi con i canoni della più tradizionale (e in fondo abusata) commedia brillante degli equivoci e delle gag anche grossolane e strappa risata.
A mio avviso tutto ciò è molto lecito e indice di quella traccia di umanità che talvolta la genialità esclude o cela davvero in modo irrintracciabile nei cassetti più reconditi in cui si finisce per non guardare mai.
E comunque tutto ciò è già successo, nei Coen, con esiti solo parzialmente superiori, e precisamente posso citare le produzioni leggere (e consecutive) che hanno già caratterizzato il duo registico: penso a "Prima ti sposo e poi ti rovino" e "Ladykillers", pure quest'ultimo, come il presente film, di fatto un remake (necessario o meno che sia).
Obietterete (sempre lecitamente) che ci si possa azzardare, a quei livelli di considerazione a cui si è arrivati chiamandosi Coen, ancora a pretendere di far ridere con una scena roboante di peto con signora o con un uomo un mutande su un cornicione: nel primo caso e' vero che in un cinepanettone o in una vanzinata non lo tolleriamo proprio più mentre con due autori qui presenti la scena la troviamo sin irresistibile e foriera di risata liberatoria, ma è pur vero che la vita è piena di ingiustizie e pure che ognuno prima o poi è vittima delle sue scelleratezze; nel secondo caso la scena dell'uomo in mutande in bilico fuori della finestra diviene il cardine di tutta una tradizione della commedia brillante, quella che nasce col capolavoro hawksiano di Susanna nel lontano '39 (film ri-citato poi spudoratamente, ma sempre con simpatia e coerenza, nella scena del gattino/leone posto a guardia del tesoro d'autore).
Non male, e inevitabile in presenza di commedia scatenata e brillante, pure il cast attoriale che prevede un terzetto di protagonisti da manuale: una Diaz mozzafiato, quarantenne spaziale con un fisico da ventenne, un Firth dalle belle gambe magre ma muscolose, un vestito tagliato alla perfezione che non fa che violentare in modo indegno ma divertente, qui in un ruolo che ricalca il Cary Grant impacciato del citato Susanna (ma li in mutande c'era la strepitosa Hepburn, mentre lui la cingeva da dietro per occultarla da sguardi imbarazzanti, procedendo entrambi a passo di marcia e dando vita ad una scena comica ed erotica tra le migliori di ogni tempo); infine un Rickman irresistibile che e' da oltre 25 anni il miglior cattivo mai apparso sullo schermo. E certo, quell'Hoffman alla regia, per nulla eccelso come testimoniano le sue precedenti non illustri (ma neppure vergognose) esperienze dietro la mcchina da presai, non aiuta certo a far acquisire al film quel pizzico di originalità di cui già in partenza un remake difetta come base di principio. A restare nella memoria sono tuttavia il bel ruolo solo apparentemente di contorno dell'ironico io narrante Tom Courtenay, la spassosa macchietta del fesso critico d'arte multilingue Stanley Tucci, e le scene irresistibili al Savoy con i due addetti gay alla recepion che trattano inizialmente con estrema sufficienza il nostro protagonista miserrimo sempre sull'orlo del lastrico, per poi arrivare a compiacersi di tutte le sue (ipotetiche) prestazioni sessuali di camera in camera, frutto di mille esilaranti equivoci che solo la commedia sofisticata ben condotta riesce a padroneggiare, regalandoci anche qui, almeno a tratti, momenti di sano umorismo e spassoso divertimento che ogni tanto, magari a piccole dosi, sentiamo proprio appartenerci.

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