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Fright Night. Il vampiro della porta accanto

Regia di Craig Gillespie vedi scheda film

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La recensione su Fright Night. Il vampiro della porta accanto

di scapigliato
8 stelle

Nel 1985 Tom Holland dirige Fright Night che da noi arriva come Ammazzavampiri. È la storia semplice, ma efficace, di un liceale che scopre nel vicino un vampiro assetato di sangue che continua a mietere vittime in paese e che per fermarlo si rivolge a un vecchio attore dei gloriosi film horror del passato, oggi parodia di se stesso in uno show tv che ha proprio come nome Fright Night. Ci sono tutti gli ingredienti per un teen-horror classico, come il protagonista un po’ nerd, l’amico bizzarro e strampalato, la ragazza con cui ha un irrisolto rapporto affettivo, l’adulto sul viale del tramonto e del riscatto, la tranquilla cittadina americana, il liceo, i bulli, le mean-girls e ovviamente la mostruosità che irrompe a destabilizzare gli equilibri sonnolenti. Inoltre, com’è giusto che sia per un horror, ci sono chiare e dirette allusioni alla sfera sessuale che rendono tutto simbolicamente più interessante aumentando così i livelli di lettura.

Erede del teen-horror ricreato da Landis con Un Lupo Mannaro Americano a Londra (1981) e coevo a Unico Indizio la Luna Piena (1985), anche il film di Tom Holland riesce, seppur con qualche scivolone tecnico e qualche debolezza o faciloneria del testo, a confezionare una storia che tra temi, motivi e figurazioni di genere riesce a trovare il suo posto d’onore all’interno degli horror giovanili.

I punti di forza di Ammazzavampiri sono molteplici. Non solo la storia è fluida e scorre bene, ma l’intreccio stesso non prevede fortunatamente complicazioni di concetto tali da rendere la visione cervellotica oppure buchi di sceneggiatura tali da non permettere una corretta e coerente visione. Il cardine su cui ruota il film, a livello narrativo, è la presenza ingombrante e minacciosa di un vicino di casa assetato di sangue – il celebre vampiro della porta accanto – che accelera l’azione in un turbinio di cause ed effetti divertente e trascinante.

A livello argomentale invece, tutto ruota intorno alla sfera sessuale e in particolar modo alla deflorazione della fidanzata del protagonista e al suo stesso sverginamento. La fatidica prima volta è un mito di dolore e negazione, di incapacità e privazione, anche se poi nella realtà proprio così non lo è, almeno non per tutti. Invece, per l’immaginario orrorifico la prima penetrazione ha lo stesso impatto di un infilzamento e viene narrativizzata attraverso trame orrorifiche proprio per  rappresentare quello che per la cultura puritana è comunque un trauma – guardiamo per esempio ad Alta Tensione (2003), Teath (2007) o alla trilogia di Ginger Snaps (2000-2004) che drammatizzano orrorificamente il percorso fisiologico femminile.

In particolar modo, in Ammazzavampiri al tentativo di deflorazione del protagonista risponde picche la diretta interessata, morigerata quel tanto per avere seri dubbi sull’atto sessuale e questo permette di utilizzare il mito del vampiro e la sua figurazione per rappresentare la pruderia sessuale e il blocco psicologico moralista da rimuovere. Ineguagliabile e di gran resa visiva è difatti la lunga striscia di sangue che dal collo della ragazza le scende nel mezzo della schiena fino ad arrivare alle natiche. Ogni riferimento pornografico è puramente voluto.

Altro punto di forza del film sono gli effetti speciali. Di efficace resa plastica, tutti i mostriciattoli del film e tutte le magicherie connesse al personaggio di Jerry Dandrige, il vampiro,  sono divertenti se non entusiasmanti ed esauriscono in pieno la funzione immaginifica della mostruosità fisica che il digitale non riuscirà mai ad eguagliare. Ne è un esempio lampante la scena della trasformazione licantropica di Evil Ed, l’amico bizzarro del protagonista. Infettato precedentemente dal vampiro, ora è suo schiavo e tenta di uccidere il protagonista e il vecchio ciarlatano Peter Vincent – Roddy McDowall dai pinguini di Mary Poppins (1964) ai vampiri di Tom Holland con un nome che rievoca Peter Cushing e Vincent Price. Nel tentativo di uccidere proprio l’esperto di vampiri viene trafitto da un paletto di legno. La lunga agonia di Ed mentre da lupo ritorna uomo, non solo è tecnicamente spettacolare, ma se il regista ha voluto insistere su ogni singolo dettaglio di un’azione inutile per l’economia del film, c’è da credere che l’abbia fatto per puro gusto cinematografico, pura tensione estetica, riuscendo in pieno a creare una sequenza antologica: spettacolare e commovente.

Tutto questo manca a Fright Night. Il Vampiro della Porta Accanto (2011) diretto da Craig Gillespie. Sicuramente è un bel film, fatto bene, sceneggiato con cura del dettaglio – che a volte non serve – e soprattutto ben interpretato da Anton Yelchin e da Colin Farrel che fa il piacione a briglie sciolte e regala una delle sue prove migliori, perché quando si recita un ruolo sopra le righe e che non si prende troppo sul serio si dà sempre il meglio di sé. Bellina, ma insipida Imogen Poots – no, non è un detersivo né un lassativo – sprecato come al solito Dave Franco, per nulla azzeccato il nuovo Peter Vincent  interpretato da David Tennant.

Il film di Gillespie ripropone alcuni moduli dell’originale seminandoli qua e là senza rispettare il modello di partenza e velocizza l’azione tagliando in pieno tutti i primi venti minuti in cui ci si dovrebbe preparare all’arrivo della prima svolta. In Holland questo permetteva di entrare nell’atmosfera 80s della sua storia: l’euforia sessuale castrata – nata da Animal House (1978) e continuata con i vari Porky’s (1982, 1983, 1985)  ed imitazioni; la bizzarria dei vestiti e dei gadget, tipica degli anni ‘80; l’iconografia pop che in un horror diventava valore aggiunto e attualizzava un immaginario senza snaturarlo, cosa che invece avviene più facilmente oggi con gli horror 2.0; infine, anche se non meno importante, il contesto della provincia americana con i suoi giovani bulli, le cheerleders, il liceo, la squadra di baseball, football, atletica o basket e soprattutto le villette a schiera, tutte belle, lussuose, grandi, con il prato ben tagliato e il vialetto a raso, tutte uguali, tutte anonime espressioni di un benessere reaganiano acquisito – per cui si legga quell’imprescindibile studio politico e filosofico che è Donnie Darko (2001).

In Gillespie questa atmosfera ovviamente non c’è. Siamo agli inizi degli anni dieci del duemila, c’è internet e i programmi tv si guardano altrove – ma questo verrà utilizzato soprattutto in Fright Night 2 (2013) dove si userà invece l’iPad. La location, azzeccatissima, è un paese alveare nel deserto nevadino, utile per simbolizzare una certa omologazione contemporanea dovuta alla tensione e all’ansia di successo e popolarità con cui contrasta l’esperienza nerd del protagonista Anton Yelchin – sempre perfetto – che tanto vuole nascondere diventando il nuovo bullo della scuola seguendo il modello dei suoi nuovi amici bellocci, Dave Franco e Reid Ewing.

Incisivi anche tutti i nuclei tematici utilizzati in questo reboot, dall’amico nerd vampirizzato alle modalità del vampiro di integrarsi nella comunità in cui vive, fino al rapporto d’amore problematico tra il protagonista e la sua ragazza. Purtroppo, Gillespie sbaglia completamente l’ultima parte del film. Per quanto mi riguarda Fright Night è perfetto fino allo scontro tra il protagonista e il vampiro sulla statale in pieno deserto. Dopodiché, con l’arrivo in Nevada e il coinvolgimento militare di un posticcio e improbabile Peter Vincent, il film diventa un action senza più il gusto per il dosaggio, l’ironia e l’immaginario che aveva avuto fino poco prima. Inoltre è totalmente assente qualsiasi perturbazione sessuale e qualsiasi simbolismo erotico confermando così la sterilità dell’operazione.

Si salva giusto sul finale una brillante idea di sceneggiatura: Colin Farrel mentre slinguazza con Imogen Poots ormai vampirizzata si fa un piccolo taglio sul petto da cui sgorga abbondante il suo sangue e si fa letteralmente lappare dalla ragazza. Non solo è un’immagine allusiva della fellatio, ma è la stessa cosa che fa il Dracula di Stoker a Mina nell’omonimo romanzo. Quindi una bella citazione che ha anche la forza della provocazione simbolica.

I rispettivi sequel non sono da meno. Il primo, di Tommy Lee Wallace (1988) è confuso e mal diretto, posticcio nel trucco quanto nelle intenzioni. C’è di buono che i due protagonisti, William Ragsdale e Roddy McDowall, tornano come prima ma meno di prima, ma per il resto, nonostante la bella presenza di Julie Carmen nel ruolo di Regine Dandrige, sorella del vampiro ucciso nell’episodio precedente, sia il reparto attori che quello tecnico lasciano desiderare.

Caso diverso per il sequel del 2013 diretto da Eduardo Rodriguez – che non è parente di Roberto anche se gli ha prodotto e curato Curandero (2005). In Fright Night 2. New Blood, come ogni sequel che si rispetti e che voglia godere di un certo successo personale, si cambia location, preferendovene una abbastanza esotica, e cosa c’è di meglio se non la vecchia Romania culla del mito vampirico per eccellenza, oltre che aumentare la dose di morti, sangue e spaventi. Il film in effetti è molto divertente e credo anche molto interessante sotto diversi aspetti, se escludiamo alcuni passaggi di sceneggiatura così telefonati da lasciare basiti per puerilità e pressapochismo.

Innanzitutto c’è molto più sangue e molta più violenza visiva, anche se non è nulla di raccapricciante o sconvolgente, però ci sono molte idee gore in questo film e solo poche non sono riuscite bene. Le aggressioni, le morti, le succhiate, gli inseguimenti: tutto è ben oliato nei suoi meccanismi e viene reso con il giusto utilizzo di elementi iconografici interessanti. Da plauso sono l’inseguimento nei cunicoli sotto Bucarest pensati e realizzati sul modello dei sonar dei pipistrelli, e l’inseguimento/incidente in macchina che non è secondo nemmeno a quello altrettanto convincente del precedente Fright Night.

Inoltre c’è una certa dose di erotismo giocata molto bene sul crinale dell’attrazione lesbica, tematica abituale del vampirismo. Nudi femminili, anche disturbanti – la vecchia Bathory prima di immergersi nella vasca piena di sangue sfoggia un corpo sfatto dagli anni molto più iconograficamente efficace delle posticce streghe di plasticone di Lords of  Salem (2012) – oltre che continui rimbalzi dialettici tra l’impossibilità di fornicare, che abbiamo già fin dal primo film dell’85, e l’accumulo di materiale e di immagini erotiche e stimolanti, prima tra tutte il corpo perfettamente lascivo di Jaime Murray – e il brit-actor Will Payne è il corpo giusto per incarnare l’irrisolto sessuale: bello, ma castrato. Sconquassa però la sua fidanzatina vampirizzata Sasha Parkinson, che porta anche lei il nome di Amy come tradizione vuole: impossibile non farsi mordere.

Sbagliato clamorosamente il personaggio di Peter Vincent, ma questo era già successo con Gillespie.

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