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Paradiso amaro

Regia di Alexander Payne vedi scheda film

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La recensione su Paradiso amaro

di lorenzodg
6 stelle

Paradiso amaro” (The Descendants, 2011) è il quinto lungometraggio di Alexander Payne. Al regista del Nebraska piace girare il suo Paese: sempre con tono ridente e delicato con nascondimenti di personaggi di varia umanità. Insomma un piglio autoriale ma nello stesso tempo con un disincanto giusto (è il caso di “Sideways”, 2004) e un fervore interiore lasciato agli amici (come in “About Schmidt”, 2002). Una regia che lambisce le corde emozionali e gli stralci lontani del paesaggio per poi ritornare su primi piani da recitazione ‘of course’; come d’incanto l’animo ne partecipa ma a volte si tiene lontano. Come per dire ti voglio sporcare le mani ma subito dopo lavale che non va bene. Ed ecco che il racconto (può perdere) aspetta(tive) dichiarate e dimostrazioni accorrenti.     Dopo che le acque della spiaggia inondano i nostri pensieri ecco che la voce fuori campo di George Clooney (nel doppiaggio ar-rocato di Francesco Pannofino) fa subito il verso al film e disegna un’appropriazione di versi ‘prosaici’ per alimentare la nostra (eventuale) curiosità. Un espediente da film di classe svenduta senza sconti: un paese di beltà che perde lo schianto di vigoria bellezza di fronte allo scacco interiore di Matt King (appunto Clooney) con la sua donna che è in coma sopra al letto di un ospedale. E’ vero siamo nelle Hawaii ma il bel vivere è solo nei colori da immaginario delle isole non certo dentro la stanza di Elizabeth (Patricia Heastie) che ha il compito ingrato di cercare di unire le forze di una famiglia e di far scovare meschinità e faccende non propriamente virtuose. In un silenzio, in un coma da caduta verticale la signora King (sedata e morente) scava nel film ombre malferme, venti bavosi e menti imbucate per svegliare il marito da ovvi interessi e scadenze immobiliari. Tutto si attua in un percorso accidentato, frastagliato, incongruo e poco avveduto: il signore arricchito ed erede di grande famiglia non fa nulla per sentire vicina la famiglia quando ne ha (aveva) bisogno. Un egoismo sbilenco e fottuto che il regista tenta disperatamente di far suo ma non gli riesce il tiro completamente e/o meglio ancora è il personaggio di Matt King (svilito nei segni e glamour nei modi) che centra il colpo allo stesso regista riprendendosi in mano la forza implosiva di una recitazione avveduta e stridente, contorta e spettinata. Un’occasione per Clooney (che non ha avuto il plauso in ogni caso e dove per chi ne scrive le prove attoriali) che non sé lasciato sfuggire: saper agire di rimessa, quasi da spalla a se stesso. Un minimo di riverenza a ciò che si compiace (spudoratamente) mentre un uomo fuoriesce dal suo nido di un’isola beata (da cartolina in alto). E i voli andata e ritorno verso la grande isola delle Hawaii (alla ricerca di sua figlia e al vizio maledetto di una vita compiacente) mostrati in cartina (con segnali turistici ammiccando al film di genere di antica memoria) scadono nel rito ‘ampolloso’ di ridenti-menti inascoltati e mortificazioni ammiccanti. Un destino fatto di posti sognati ma mai (s)venduti, di sedute amichevoli ma mai salutari, di spiagge desiderate ma mai dorate: un Matt King pieno di sé ma senza un se stesso davanti, che cerca continuamente sbalzi d’umore e contrasti armoniosi. Una cerchia di amici, cugini, vicini, suoceri, figlie, amanti e parenti che non conosce affatto e che si ostina a voler incontrare per meglio decifrare la sua vita. Non conosce neanche la moglie che è sul letto morente. No Matt King è un uomo superficiale, inietto, vile, arricchito, egoista e, taumaturgicamente, senza palle. Una persona di modesta rilevanza famigliare e un papà che si ostina a spennare la vita delle figlie. Modi succinti, brevi e per niente decisi. Uno scheletro vivente che il regista cerca di riprendere ma non ci riesce e nello stesso tempo un uomo (attore) che cerca di mostrarsi per quello che è (niente) ma non ci riesce (o meglio riesce a farsi notare bene in una prova recitativa insicura e radente, giusta ed opportuna per l’occasione che gli è stata data). E’ sì il bel George Clooney trova in questo film una giusta collocazione e un personaggio che par si sprechi in ‘cliché’ (come lui stesso dice per il posto di cui raffigura il mondo cioè le Hawaii appunto) avveduti e in prestazioni da par suo (come per non dargli torto).
    Nel film di Alexander Payne entra la morte nel nostro bel paradiso ma si tiene lontano ogni vigliaccheria nascosta; le paure e le ansie si celano per bene dietro a linguaggi narrativi congegnati per piacere ma mai (o quasi mai) irriverenti, scorretti e veramente inferociti. L’unico vero pugno allo schermo viene dato dal papà di Elizabeth all’amico della nipote Alexandra che si permette di prendere in giro (irridendola) sua moglie e nello stesso tempo non si nasconde nulla definendo sua figlia responsabile e fedele. Sì una fedeltà paterna ma non per il proprio marito che scopre amaramente il sesso extra della moglie e il rapporto coniugale in crisi (con un divorzio che doveva avvenire) per colpa di Brian Speer (un uomo scaltro e figlio di) che certamente non si scompone più di tanto e non vuole altre grane per la propria famiglia (sposato e con due bambini). Una morte che allontana i miseri arcobaleni che attorniano questo paradiso osannato ma che, altresì, non vuole per nulla altrui gocciolanti lacrime di compensazione. Una pulizia formale di rispetto e dignità, ma anche (e soprattutto) di avveduta scrittura in grana lieve e corposità sperata.
    E la morte tiene in balia le certezze evanescenti di Matt e delle sue ricchezze. La sua discendenza gli permette di vendere terreni da ‘favola’ e di intascare premi da ‘nababbo’: quel che è deciso è deciso. Si vende per destino anche se il destino di discendenza crea in Matt uno spiraglio (di comodo) a tenere tutto. Certo il posto paradisiaco non si vende per compiacersi della discendenza fortuna e dei lasciti venuti casualmente a chi crede di apprezzarli vuole lì lasciarli per vederli e consolarsi della terra (un paradiso laicizzato e strumento di voglie passate quando il mare assorbiva Matt nella famiglia e la primogenita divertiva il nucleo con un campeggio che sa di tenda non ascensionale ma vituperata vigliaccheria umana che si immerge, ahinoi, nel chiarore di un tempo vissuto e di un barlume di speranza ritornando nel passato. Tutto si snoda in una bellezza interiore inesistente e di una visuale esteriore scomparsa negli occhi e ferma nell’immagine fissa del regista). Il vedere la spiaggia e la sua dolce insenatura (e sì che Scottie dice ‘anch’io voglio campeggiare’) rendono un brivido alla stoltezza umana e il lasciare il luogo intatto e vergine a futuri insediamenti urbani infiacchisce la veduta di un uomo morente che può solo lasciare così ciò che gli è stato dato ma non cambiare ciò che non ha mai preso: una famiglia sfinita e caduta. L’inquadratura dei quattro (Matt e le sue figlie più l’amico che ha guidato l’auto-jeep) per godere il panorama dall’alto è di grande respiro cinematografico. Il silenzio dei posti nasconde ciò che un padre ha dentro: un fermo immagine che rimane e impressiona. Nulla attorno alla natura che si mostra per quello che è e l’uomo che si specchia e si ricorda per quello che era.
    Il contratto salta: Matt non vuole vendere simile zona a qualcuno che è dentro l’affare, quel qualcuno che gli voleva rubare Elizabeth. Era riuscito nell’intento il (non) malcapitato Brian Speer. Davanti a parenti e amici Matt annuncia la firma non posta e l’inquadratura ferma (e riposta) dietro si fissa alla nuca che si sposta in fermo-immagine davanti al letto della moglie. E’ a lei che deve dirlo, ma è a lei che deve dire l’odio di tutto: di ciò che avrebbe fatto (se non ci fosse stato l’incidente) e di ciò che avrebbe saputo. Il passato e il presente si mescolano e si scindono in modo simbiotico e parassitico: assistiamo ad una morte blanda e cupa, rigorosa e mesta. Una vita cade mentre l’altrui non può comunicare. Una sensazione dirompente s’affaccia all’uscita dalla sala: un gusto di morte vivente e di vita scaduta. Una pellicola che denota scarsezza di sentimento (non sentimentalismo) e di pathos (non retorica) al momento giusto; e che aggiunge (più del dovuto) un senso di svagatezza (commediante) e di sorrisino (ammiccante). I due aspetti non si integrano perfettamente o meglio alcune volte (e nei momenti canonici) appaiono snaturati e irriverenti con se stessi. Fanno a pugni: forse il regista tende a compensare la complementarietà dei giochi narrativi e a subliminare l’agonia del messaggio. Ma ciò resta (opinione di botto) non ben amalgamata. Quello di correlare i paesaggi, le stanze domestiche, i dialoghi e il letto di un ospedale non è semplice (e tantomeno scorrevole). Si vuole l’esteriorità e l’interiorità sincronizzate ma anche palpabili al minimo o impalpabili: questo può avvenire ma con una recitazione teatrale tirata a corde tese e, nel medesimo tempo, provata, acerba e cavernosa. Per far ciò il cast deve essere compiacente alla storia e il regista mette in atto la vita preziosa di una famiglia in lenta agonia. Invece siamo di fronte ad un cast di livello ma non certamente eccelso. In tali contesti narrativi è solo il set (e il suo credenziale) che dà il passo veloce di una pellicola e il suo essere al di fuori di normale medietà. Cioè per aprire le strade per un capolavoro. Qui invece non ci siamo: tutto ordinario ma non eccezionale. Le intenzioni totalizzanti rimarcano un discreto modo di raccontare(si).
    Nella moda didascalica di film rimarcanti quella di Payne è da misurare con “La morte in diretta” (La Mort en direct, 1980) di Bertrand Tavernier. Per il motivo di ultimo aspetto da poter vedere. Il sinergico  modo di creare l’evento tv con una morte e di sperare in un non evento diretto regge sempre (o quasi). Si pagano sempre le conseguenze: chi osserva, parla, si sfoga, riprende, è dietro al set, sfida, accumula ha solo da perdere. Non ha risposte (mai). E si chiude in un circolo vizioso. Il moribondo (morto) è lì in attesa ma nulla può e il suo silenzio (lugubre e  idiosincrasiaco) stana ogni statuaria immobilità umana (di anima perdente). Lo schermo (tv-cine) offre il peggio a chi assiste, a chi ascolta, a chi accudisce e a chi guarda il vissuto (di un passato).
Cast:
George Clooney (Matt King): discretamente bravo (il suo pianto al sapere delle notizie sulla moglie e il suo amante non convincono pienamente; poi inginocchiarsi sul prato come uomo sconfitto sa di scena madre con pathos non elevato; buone le parti con la figlia maggiore; premiato come attore drammatico al Golden Globe;
Matthew Lillard (Brian Speer): prova ingrata ma abbastanza riuscita;
Judy Greer (Julie Speer): parte di rimessa ma vince su molti; quando effettua la visita a Elizabeth è brava (eccessivo lo ‘sproloquio’ contro la donna…?...);
Amara Miller (Scottie King): figlia minore e atteggiamenti giusti;
Shailene Woodley (Alexandra King): figlia maggiore con una prova convincente;
Nick Krause (Sid): amico (e più) di Alexandra; con modi sfacciati riesce ad entrare bene nel film;
Fotografia:
Phedon Papamichael riesce a dare un buon contributo; fotografia colorata e spenta (mai eccessiva): aveva lavorato col regista in “Sideways” e con Clooney ne “The Ides of March”;
Sceneggiatura: premiata agli ultimi Oscar (come non originale); la storia è tratta dal libro di Kaui Hart Hemmings (“Eredi di un mondo sbagliato”). Sia il titolo originale del film (“The Discendants”) che quello del libro sono più appropriati a tutto ciò che viene sviluppato nella sceneggiatura. Il titolo italiano è ‘furbo’ (a vantaggio di chi…) ma non certamente correttissimo.
Regia: il lavoro di Alexander Payne è di qualità ma non soddisfa pienamente; rimangono le riprese soffuse e delicate e i paesaggi attorno ai personaggi.
    Voto: 7--.

    (pubblicata su : icinemaniaci.blogspot.com)
 

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