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War Horse

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su War Horse

di OGM
8 stelle

Non si può essere  Steven Spielberg senza un pizzico di stucchevolezza. Senza quel cenno di sorriso infantile  che è la maschera indossata dalla megalomania hollywoodiana, quando questa è in vena di coccole, e vuol farsi amare da grandi e piccini. Una puntina di sapore di favola che è un po’ narcisismo, un po’ captatio benevolentiae, un po’ magia d’autore. È come una goccia di miele nella pietanza, ed ha l’intensa dolcezza delle cose genuine di una volta. La storia d’amore tra un ragazzo di campagna ed il suo cavallo, tratta da un romanzo di Michael Morpurgo, ha le classiche, suadenti cadenze dell’eroismo dei semplici, della tenacia degli ultimi, della fierezza dei poveri, che rispondono alle avversità con quell’epica dei sentimenti che dà forma al dramma, mentre, contemporaneamente, spiana la strada al lieto fine. Il marchio del cinema di Spielberg è la forza applicata alla delicatezza:  un’unione basata su un paradosso leggendario, e  rafforzata dal buffo accento della fantasia. Questa fa spettacolo, ma spesso soltanto fra le righe, come un diversivo inserito nel discorso principale. Il primo piano di un’oca che starnazza, di un gioco di zolle dissodate da un aratro, di un paio di ferri da calza branditi come un’arma,  sono tutti dettagli attraverso cui fa capolino l’ironia: quella pacifica e provocatoria che esploderà, verso la fine, in una straordinaria sequenza da teatro d’avanguardia, con due soldati, due cesoie e un  groviglio di filo spinato da tagliare. D’altronde, il surreale è di casa nell’opera di Spielberg: nella filmografia che va da E.T.  al ciclo di Indiana Jones, passando per Schindler’s List, le vicende sono quasi sempre incentrate su sfide solitarie e apparentemente impossibili, portate avanti da personaggi un po’ folli, alle prese con un contesto ostile, eppure potenzialmente ricco di risorse sconosciute di cui andare alla scoperta.   In questo film, il teatro dell’avventura è, inizialmente,  l’ambiente rurale dell’Inghilterra del primo Novecento: un vasto paradiso verde, però difficile da coltivare, soprattutto se, al posto di una bestia da tiro, si dispone di Joey, un giovane purosangue dal carattere ribelle.  Con lo scoppio della Grande Guerra, il nuovo scenario è il campo di battaglia: il cavallo viene infatti venduto all’esercito, e diventa proprietà del capitano Nicholls.  Questa svolta del racconto determina un  radicale cambio nello stile registico: la coralità che prima rappresentava lo sguardo beffardo del mondo, si trasforma, in certi istanti, in un coreografico show da kolossal bellico. Ed anche la situazione di Joey si ribalta: da fenomeno singolare ed incompreso, il cavallo si ritrova ad essere parte di un tutto, immerso in una moltitudine di suoi simili impegnata in un’azione coordinata, ed esposta allo stesso funesto destino. Steven Spielberg calca la mano su questo artificio, che contrasta con la morbida fluidità delle emozioni, e, attraverso l’assurda meccanicità della violenza di massa, accentua, intorno all’animale protagonista, il senso di smarrimento ed abbandono. Con gli eventi successivi, il movimento collettivo cederà il posto ad un percorso a due,  cominciato con una fuga, e segnato ancora, tragicamente, da lotte individuali che non temono nulla, in quanto ispirate a valori che vanno oltre la morte. Il coraggio è, in fondo,  l’argomento centrale della storia, e viene presentato in tutte le sue forme, soprattutto quelle più atipiche ed inattese, che il cuore improvvisa per necessità, sotto la spinta dei tanti imprevedibili casi della vita.  Nel generoso sacrificio di sé la retorica digrada in romanticismo; e, quando è investita di un’aura letteraria, la nobiltà d’animo assume la veste trasognata della bontà. È sulla base di questo concetto fuori moda, eppure fuori dal tempo,  che Spielberg, per l’ennesima  volta,  riesce a costruire una saga dallo spirito semplice, però piena di momenti memorabili: un affettuoso invito  a dimenticare il nostro scetticismo di uomini vissuti, per tornare a partecipare, come bambini, all’ingenuo, primitivo stupore del miracolo.  

 

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