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Hors Satan

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su Hors Satan

di Peppe Comune
8 stelle

Le Gars (David Dewaele) è un ragazzo alquanto enigmatico che si aggira solingo presso le dune sabbiose di Pas-de-Calais (siamo nel nord della Francia, a la Cote d’Opale, vicino a Boulogne sur Mer). Vive all’aperto in un accampamento di fortuna, caccia con il fucile e accende continuamente dei fuochi, di fronte ai quali lo si vede spesso fermarsi in preghiera in quelli che paiono dei misteriosi riti propiziatori. Nessun abitante del posto gli si avvicina più di tanto, solo Ella (Alexandra Lematre) si accompagna a lui senza remore. Da lui ha ottenuto in dono la morte di un padre che l’ha tiranneggiata per troppi anni. Gli porta da mangiare, lo segue nel suo girovagare continuo. Con lui e per lui, si spinge alla devozione di un Dio che non è di nessun altro.

 

 

Se c’è un elemento che emerge con nitida chiarezza nella poetica di Bruno Dumont è la voluta antispettacolarità che caratterizza il suo modo di fare cinema, il fatto che si è indotti a partorire riflessioni sui massimi sistemi senza che si faccia uso di una messinscena che ne anticipi “trionfalmente” la presenza. Tutto è lasciato alla lenta liturgia del necessario, all’essenzialità dell’atto in se e del momento in cui si compie, alla sottrazione di ogni accadimento superfluo (caratteristica questa che genera una certa assonanza con il linguaggio cinematografico di Robert Bresson e, in particolare, con film come "Un condannato a morte è fuggito","Pickpocket","L'argent"). Questa rigorosa eliminazione di ogni elemento che nulla aggiunge a ciò che si intende rappresentare, unita all’utilizzo continuo di campi lunghi, porta in risalto l’evidente limitatezza dell’uomo rispetto al tutto di cui ogni singolo territorio può rendersi partecipe. Per Bruno Dumont (il filosofo), ogni particolare diventa mistica dell’universo. Con “Hors Satan”, l’autore francese porta al culmine questo aspetto della sua poetica con un discorso dall’alta cifra speculativa che già aveva iniziato in precedenza con “Hadewijch”. In effetti, mi sento di poter dire che i due film rappresentano due facce di una stessa medaglia, sia per il modo più compiuto rispetto agli altri film con cui Dumont fa riferimento ad una spiritualità che è più nelle cose che popolano il mondo che legata ad una particolare religione, sia per la presenza in entrambi i film dell’attore David Dewaele, la cui caratterizzazione, aldilà della centralità del suo utilizzo, pare sostanziare una linearità speculativa tra i due film che fa leva sul rapporto tra il bene e il male, sulla loro natura dialettica e sull’intrinseca ambiguità del loro carattere. In “Hadewijch”, il personaggio interpretato da David Dewaele era quello di un giovane muratore con precedenti penali le cui sorti esistenziali si incrociavano spesso con la trama principale, incentrata sulle riflessioni mistiche di una ragazza infervorata di Gesù Cristo. Il film si chiudeva con un abbraccio caloroso tra Cèline e David, che per entrambi sembrava avere un valore salvifico. Dal mio punto di vista, da quell’ultima sequenza, è come se Bruno Dumont avesse smesso di seguire il percorso spirituale della ragazza per concentrarsi sul carattere enigmatico di questo ragazzo irregolare avvolto da cupi presagi. Le Gars è un alieno rispetto al mondo che lo circonda, tanto propenso a mantenere un atteggiamento distaccato con tutto quello che gli accade intorno, quanto incline a rendersene partecipe per farne emergere gli effetti più devastanti. Vive a stretto contatto con la natura selvaggia che lo ospita , con la quale si rapporta con un atteggiamento che oscilla tra la santificazione di ogni brandello di terra che calpesta e un assoluta volontà di potenza che rispecchia esattamente quello che “bisognava fare”. Nessuno sembra prestargli particolare attenzione, come dimostra il fatto che nessuno lo ricollega all’uccisione del padre di Elle, nonostante la ragazza sia sempre in sua compagnia. Elle appunto, l’unica che lo segue in questo suo strano pellegrinaggio, che lo asseconda senza condizioni. Vorrebbe tanto fare l’amore con lui Elle, ma Le Gars si rifiuta ogni volta, perentoriamente anche, come chi agisce per difendere e non per negare, per aggiungere e non per togliere, come per preservare un integrità morale che altrimenti andrebbe alterata (come ci suggerisce la sequenza in cui Le Gars fa sesso con una sconosciuta). Per Le Gars, è come se Elle fosse diventata il riflesso preciso della sua idea del perfettibile, ogni agente che altera lo stato emotivo della ragazza deve sottoporsi al vaglio della sua indole “riparatrice” (“Non c’è che una cosa da fare”, ripete spesso), anche la morte, su di lei, deve cedere il passo. Le Gars è un angelo diseredato che appartiene al mondo intero, capace di dare e togliere la vita con una semplicità disarmante, di fare del bene ed esercitare il male, di esorcizzare il maligno con la sola volontà di poterlo sconfiggere e di evocarlo facendosene il più fiero cerimoniere. Si pone oltre il modo canonico con cui si è abituati a definire il confine labile tra il bene ed il male, semplicemente perché ogni sua azione, l’uccisione di un uomo come il pestaggio a sangue di un altro, la guarigione di una ragazza come il maleficio prodotto su di una sconosciuta, la caccia come gli incendi, più che essere il frutto di una singola volontà consapevole, sembrano appartenere ad un rituale pagano antico come il mondo, un rituale che è teso a far emergere i misteri che si accompagnano alla vita che scorre per quello che sono, senza alcuna interferenza sensoriale e senza alcuna esigenza di fornirgli delle spiegazioni univoche. Tutte le cose, la vita e la morte, il bene e il male, l’amore e l’odio, il perdono e la vendetta, l’acqua e il fuoco, il cielo e la terra, per il loro esserci sempre, in ogni tempo e luogo, non possono che armonizzarsi in un rapporto eternamente dialettico. Le Gars è il facitore istintivo di segni che emergono in tutta la loro portata mitica, segni che occhi disabituati al mistero non possono vedere (quelli di Elle) ma che, tuttavia, si compiono in perpetuo nell’ordinarietà di ogni santo giorno. Con Bruno Dumont, il cinema è ricondotto alla semplice eccezionalità dello sguardo.

 

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