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Arirang

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Arirang

di zombi
6 stelle

documentario-diario che si trasforma, o cerca di farlo, in un film di fiction per il desiderio spasmodico di kim ki-duk, di tornare a girare dei films per poter tornare a vivere. per tutto il film l'uomo-regista, inscindibile a quanto pare, non fa che parlare di auto-affermazione che tenta di evolvere in un'auto-distruzione dovuta ad una fortissima depressione che lo ha portato ad esiliarsi in un capanno in montagna per tre anni. quella che probabilmente doveva cominciare come una scaletta della sua giornata muta e silenziosa, siccome è solo, diventa una confessione fiume. il kim ki-duk che cerca di essere razionale pone delle domande al kim ki-duk gravato dalla malattia oscura. un altro sè, che può essere un controcampo cinematografico e montato o l'ombra di sè proiettata contro il muro(bello), lo costringono ad un confronto cercando di analizzare questi tre anni dall'incidente che sul set del suo ultimo film ha quasi ucciso un'attrice. dietro all'incidente, per fortuna non mortale, però già c'era dell'altro, che lo hanno portato a cadere inesorabilmente in depressione. alcuni dei momenti più belli del film sono quelli in cui il regista non è più regista, ma è l'uomo kim ki-duk che si costruisce oggetti vari come la moka per farsi l'espresso(che a vedere la crema, invogliava a berlo). ma poi il regista che fu, che i festival internazionali hanno contribuito a creare, emerge prepotentemente cercando un'affermazione in quel mare di caos. un'affermazione di ordine per una vita tutto sommato alquanto solitaria, ma regolata dal suo lavoro e dal bisogno in quanto coreano di confrontarsi con una delle canzoni tradizionali più sentite e effettivamente molto belle; arirang appunto. tre anni passati a sfuggire a delusione e paure, per poi tornare a cercare di desiderare di essere quello che era prima. i suoi quadri dipinti nei 90 nel sud della francia e i molteplici premi vinti in giro per il mondo, fanno capolino di tanto in tanto durante il film, per diventare protagonisti nel finale in una speranza di rinascita, dopo un prefinale molto fiction in cui si reca in giro per il paese a pareggiare conti con una pistola che si è costruito da solo. come già dissi riguardo a "irene" di cavalier, i documentari sul cinema, fatti per esorcizzare un lutto personale possono essere molto ostici per chiunque altro che non sia il regista stesso. come si fa a coinvolgere degli sconosciuti nel mondo mentale privato, soprattutto quando questo è oppresso da una depressione e non sommergerlo in un mare di parole, senza che questo inevitabilmente si perda. kim ci chiede di non smettere di amarlo e di cercarlo, e di invitarlo a proseguire a fare il mestiere più bello del mondo. nel limite del possibile farò ciò che chiede, aspettandolo per la sua prossima fatica. onesto e sincero sino all'imbarazzo in certi momenti, più suo che mio invero, come possono essere le crisi di pianto cercate allo sfinimento in un bisogno di sfogarsi e buttare di fuori lo stress, ma anche in cerca di una sorta di complicità, come quando guarda lo spettatore per sapere se quello che sta facendo possa andare bene. 

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