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Arirang

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su Arirang

di OGM
8 stelle

Impietoso ed estremo, come tutto il cinema di Kim Ki-duk. Autoreferenziale, come la vita che si accanisce contro se stessa, costruendo con le sue stesse mani il proprio dolore. Un regista ha capito che nei suoi film, a dirigere gli attori non è lui, bensì l’anima più cruda della realtà, e così ha deciso di scappare, ritirandosi nella dura solitudine di un eremitaggio montano. La sua camera da letto è una tenda canadese in quella che è poco più di una baracca, priva di gas e di acqua corrente. D’inverno viene la neve e fa molto freddo, e per scaldarsi c’è solo una piccola stufa a legna, la stessa che, a volte, serve per cucinare. Un disagio autoimposto, per castigarsi, o forse, semplicemente, per ritrovare il contatto con la verità, quella che si esprime, senza intermediazioni artistiche e culturali, attraverso una primordiale energia combattiva. La voglia di uccidere e distruggere scarnifica il linguaggio della macchina da presa, trasformandola in uno specchio nudo e indisciplinato, che non si ingegna a ritagliare le scena su misura, calibrandone la carica emotiva: l’obiettivo resta fermo, a catturare un flusso di parole tracimante, incurante della moderazione imposta dai canoni morali ed estetici, ma soggetto soltanto all’impetuosità del pensiero primitivo. Mancano, in senso letterale e figurato, i margini dell’inquadratura, le cornici concettuali della ripresa, che inseriscono l’azione in un contesto storico, letterario, politico: il protagonista si chiama fuori da tutte le interpretazioni in chiave sociale, perché il suo isolamento è completo, privo di punti di riferimento e di interlocutori, che non siano la sua immagine riflessa o la sua ombra. L’intervista a se stesso è un dramma, e non un documentario, perché nel porsi le domande e nel darsi le risposte l’uomo racconta la storia senza trama del suo essere, che ha cessato di inseguire il divenire. Le sue opere, fino a tre anni prima, fino a quel Dream segnato da un grave incidente capitato ad un’attrice sul set, si sono succedute ad un ritmo frenetico, rincorrendo il traguardo di una creatività che potesse davvero rivolgersi al mondo intero, ricevendo consensi e riproducendosi sotto la spinta del proprio successo. Era emozionante credere che quelli fossero i frutti del suo genio, della sua originale visione della condizione umana. Ma qualcosa, improvvisamente, ha squarciato il velo della finzione, facendo tragicamente emergere la sostanza selvaggia ed autentica di quei racconti surreali, che sembravano soltanto i prodotti di una sinistra invenzione poetica. L’esistenza non tarda  a manifestarsi per quello che è: un percorso tortuoso ed oscuro, che comincia a schiarirsi nel momento in cui si rivela la sua naturale ed autolesionistica inclinazione al rifiuto e al tradimento. Kim Ki-duk è stato abbandonato da tutti, compresi i suoi amici più cari,  e dal suo desiderio di vivere in mezzo ai suoi simili per inviare loro il suo personale messaggio. Ciò che rimane, a riempire lo spazio e il tempo intorno a lui, è un’idea svuotata di concretezza, come il ritornello di quella popolare canzone coreana che ripete Arirang, una parola di cui non si conosce il significato. È una melodia antica, che ripropone il ricordo come un’armonia spenta, di cui si è persa l’essenza gioiosa: una sequenza di dipinti, di immagini, di poster, di fotogrammi appesi al muro della memoria, come unici elementi vivi in un nulla che, rabbiosamente, e senza pudore, si autoritrae.

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