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Carnage

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su Carnage

di spopola
8 stelle

Checchè ne pensi qualcuno che con spirito talebano giudica l’uomo ma non la bella pellicola che ha prodotto, questa è un’opera di straordinario valore e nettamente superiore al già pregevole testo di partenza (la pièce teatrale di Yasmine Reza). Onore al regista dunque e al suo indiscutibile talento.

Diciamo subito che Carnage, ultima sorprendente “impresa” registica di Polanski presentato alla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno, è un’opera di valore nettamente superiore al già pregevole testo di partenza (la pièce teatrale di Yasmine Reza Il dio del massacro rappresentata con successo anche qui in Italia) perché con pochi tratti divergenti (un prologo e un epilogo entrambi tutt’altro che secondari, quasi due appendici esterne, ma fondamentali nel progetto complessivo del suo autore) e un’impercettibile, costante mobilità di ripresa corroborata da un montaggio altrettanto emozionale, riesce a dare oltre al necessario equilibrio, anche il giusto ritmo alla presunta staticità di un racconto tutto chiuso fra le quattro mura di una casa, e un senso più compiuto e definito (grazie anche allo straordinario contributo di quattro interpreti superlativi) a un discorso abbastanza articolato e stimolante, ma a mio avviso, se circoscritto esclusivamente al testo originario, così fortemente strutturato da sembrare quasi costruito ad “arte”,  a tavolino insomma, come si suol dire, quasi che si trattasse di un teorema “dimostrativo”, e quindi in fondo persino un tantino meccanico e artificioso nel portare avanti le sue tesi anche a costo di forzare un po’ la mano in alcuni passaggi cruciali del racconto. 

Questa era stata infatti l’impressione che avevo riportato quando in teatro ho assistito a una rappresentazione del testo, certamente ben orchestrata e recitata, persino coraggiosa visti i tempi che corrono, ma abbastanza routiniera  nel bilancio complessivo, perchè priva di guizzi se non quelli attoriali, che la facevano sembrare un interessante, corposo, ma anche programmatico canovaccio senz’altro denso di provocazioni, ma scritto principalmente per consentire grandi performance interpretative regolarmente onorate, ma senza il necessario approfondimento tematico (per colpa forse di una troppo “fragile” regia) del substrato ideologico e comportamentale delle tradizionali famiglie della middle-class ormai alla deriva e qui messo alla gogna senza alcuna reticenza e un livore che sembra voler far riecheggiare gli echi della cattiveria di un vecchio testo di Albee (Chi ha paura di Virginia Woolf?) portato anche sullo schermo da Mike Nichols, ulteriore “banco di prova” per istrionici excursus mattatoriali.

La messa in scena polanskiana, rigidamente conservatrice nell’impianto, ma piena di intelligenti intuizioni nel suo progressivo “scendere all’inferno”, elimina invece tutti i sospetti di artificiosità letteraria, e nobilita così il discorso, facendolo diventare una specie di metafora crudele quasi di matrice bunuelliana per il tantissimo vetriolo sparso a piene mani, uno specchio devastato ma tutt’altro che deformato, di una società e di un presunto perbenismo borghese dove il politically correct riguarda solo la facciata, ma che le dinamiche della frizione e dello scontro, riescono a intaccare sempre più profondamente fino far venire a galla le scellerate contrapposizioni che mettono a nudo l’essenza delle anime e dei pensieri e che determineranno uno scontro prima familiare, poi di genere (il maschile contro il femminile) e così via, in un concatenarsi di eventi di volta in volta aggressivi o accusatori, che creeranno improvvise quanto impreviste alleanze e precipitose marce indietro del tutti contro tutti,  che diventano così l’immagine veritiera e tutt’altro che peregrina – vera cartina di tornasole - di un mondo in decomposizione (a partire proprio dalle sue istituzioni fondanti più elementari).

Marco Chiani su “Duellanti “ sintetizza  in questo modo il senso  profondo e compiuto dell’operazione: nel mettere in scena i rapporti di forza tra un quartetto di personaggi alternativamente vittime e carnefici, attraverso l’occupazione dello spazio di un appartamento, “Carnage” esaspera l’ossessione claustrofobica del cinema di Polanski: pochissime parole con le quali si potrebbe però già chiudere l’analisi, poiché dicono davvero se non tutto, almeno molto di  ciò che c’è da dire su questa interessante pellicola e sulle considerazioni anche personali che potrebbero essere fatte da ogni spettatore che sia per lo meno capace di scrutarsi un pò criticamente, come suggerisce a suo modo la pellicola (ne consiglierei la visione in lingua originale se possibile, però, poiché a mio avviso in questo caso il doppiaggio non è sempre corrispondente, e penalizza un poco soprattutto la prova di Jodie Foster, visto che chi le dà voce in italiano, enfatizza troppo il suo (s)parlare spingendo così verso una dimensione leggermente “caricaturale”, istericamente sopra le righe, la sua figura di donna emancipata, acculturata e socialmente impegnata, indubbiamente appartenente alla corrente privilegiata dei “radical-chic”,  il che non giova all’equilibrio complessivo della messa in scena, ma rimane ovviamente un difetto molto marginale della distribuzione nostrana, senza per questo inficiare il positivo risultato di una pellicola che si potrebbe definire (quasi) perfetta, compattamente omogenea ed emotivamente molto coinvolgente.

Il film ha una costruzione del racconto che si può considerare – sintetizzando un poco - circolare (spesso privilegiata dal cinema del regista) e si colloca con prestigiosa evidenza fra i risultati più importanti (anche se non rappresenta il suo capolavoro assoluto) di una carriera che è partita da lontano ed è stata portata  avanti con coerenza assoluta, pochissimi cedimenti e moltissime eccellenze.

Limitatissime le variazioni rispetto al testo di partenza (la sceneggiatura è della stessa Reza oltre che di Polanski) dove però, come già accennato, il “nocciolo” centrale di Carnage, la parte pulsante della storia, è incorniciata (come non avveniva invece nel testo teatrale) fra due parentesi fra loro speculari (attraverso le quali mi sembra che il registasi sia giustamente tolto molti sassolini dalla scarpa verso l’America puritana che lo ha costretto a una prolungata e forzata detenzione a scoppio ritardato agli arresti domiciliari nella sua casa in Svizzera) quasi che intendesse così - spogliandolo definitivamente della sua “dimensione teatrale” di partenza - lasciare più sospeso e rarefatto il discorso (o per  dire ancora meglio, volesse mettere di nuovo ogni cosa  in discussione). E’ proprio sui titoli di testa e di chiusura infatti che si dipanano, analoghi e corrispondenti, o meglio ancora organizzati con lo stesso campo lungo che riprende da lontano i figli delle due coppie protagoniste, all’inizio mentre si azzuffano e creano così il pretesto del contendere, e alla fine mentre paiono – a differenza dei genitori – se non proprio di nuovo amici, per lo meno riavvicinati consapevolmente (quasi in una ironica, ritrovata convivialità condivisa che rende ancora più claustrofobicamente paranoico l’isolamento centrale degli scontri) di nuovo insieme dentro un parco tipicamente newyorkese sulla riva del fiume. Non è poi per altro certamente un caso che abbia affidato al proprio figlio adolescente, Elvis Polanski, il ruolo del ragazzo che nella piccola rissa iniziale, è  colui che con un corpo contundente rompe un dente all’amico, compie il “misfatto” insomma che darà origine al conflitto. 

E’ dunque proprio attraverso questi due piccoli stralci in apparenza quasi secondari e insignificanti, che Polanski ricerca e trova i punti di contatto più diretti, immediati e certi, con la poetica complessiva del suo fare cinema, già magnificamente espressa attraverso alcuni dei capitoli fondamentali della sua opera omnia, quelli dove gli ambienti chiusi, gli appartamenti, le case, i luoghi circoscritti, hanno rappresentato il centro cruciale entro cui far coagulare la deflagrazione non solo dei diversi orrori narrati, ma anche delle ossessioni e delle contese (parlo ovviamente di Repulsion, Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York, L’inquilino del terzo piano, e soprattutto de La morte e la fanciulla col quale Carnage ha davvero tantissimi punti di contatto, e non soltanto per essere entrambi un riuscitissimo esempio di “cinema da camera”). Perché la pellicola è davvero un perfetto kammerspielfilm circoscritto dentro un appartamento borghese di Brooklyn (l’altra variazione  sostanziale fatta dal regista è proprio quello spostare l’azione dalla Francia agli Stati Uniti, da Parigi a New York, un “passaggio” quasi sicuramente scaturito dal bisogno di mettere in scena e raccontare uno spazio recitativo e “figurativo” – esterno - a lui interdetto e inaccessibile per i noti guai giudiziari).

E’ evidente allora che in una tale coercizione non solo di natura penale, ma anche repressiva,  assume un valore sicuramente fondante e “personalmente” irrinunciabile,  provare a rivisitare (e condannare) sia pure solo nominalmente e artificiosamente, proprio quell’America “ingrata” della quale aveva già colto - rendendole emblematiche - le profonde storture antropologiche, sociali e strutturali con opere quali la già citata Rosemary’s Baby e Chinatown, e fare diventare così a una lettura più ragionata e personale questa sua ultima fatica, se non una vera e propria rivincita, per lo meno una provocazione evidente per ribadire il proprio punto di vista quasi con la forza dirompente di un apologo che contiene una profonda lezione di “morale”.

Tornando al concetto di kammerspielfilm, è poi opportuno osservare che le unità di tempo, di azione e soprattutto di luogo, sono qui  pienamente (e doverosamente) rispettate (esattamente come accadeva in The Rope di Hitchcock) dentro uno spazio limitato che non consente mai che i quattro protagonisti della (all’inizio) pacifica e civilissima disfida, si allontanino oltre l’angusto corridoio che conduce a un ascensore dal quale vengono inesorabilmente  respinti e ributtati indietro (dalla “forza oscura” delle buone maniere?), quasi fossero diventati davvero prigionieri e ostaggio di quell’appartamento, esattamente come accadeva ai borghesi de L’angelo sterminatore di Buñuel.

Carnage, dove il polo di massima attrazione è spesso rivolto al tavolo centrale del salotto sul quale troneggia un mazzo di tulipani gialli acquistati per l’occasione accanto a un’esibita pila di volumi d’arte, è incentrato dunque sulla totale mancanza di vie di scampo ad ogni livello, quasi che invece di una stanza, si trattasse (e cito ancora Chiani) di una dannosa scatola a tenuta stagna in cui le finestre possono essere aperte solo per far uscire la puzza di vomito, oppure quella di un profumo alla buona spruzzato per coprirne il fetore (...) vera e propria trappola scenografica dove la progressiva esplosione della violenza scaturisce  anche dal malessere causato dall’occupazione di quel perimetro di spazio libero talmente insufficiente, sia pure nella complessiva ariosità dell’ambiente (e dove a un certo punto anche il bagno farà la sua parte, ma in un secondo tempo) da consentire solo una parziale libertà di movimento e una non sempre coerente e razionale integrità dell’espressione mentale manifestata attraverso la parola, che spesso sembra infatti vacillare.

Con uno stile che si fa progressivamente più selvaggio e disordinato fra camera a mano e inquadrature storte e dove i costanti movimenti di macchina “sembrano” finalizzati principalmente a dare fluidità alla narrazione ed evitare il ripetitivo punto di vista di un unico occhio osservatore (anche se invece fanno davvero molto di più per rendere preziosa l’impaginazione complessiva del racconto), lo sguardo del regista, via via che si procede verso l’epilogo, si fa sempre più acido e ghignante, pesino irriverente nel descrivere la deflagrazione dell’istituzione borghese della famiglia: una “carneficina” morale (…) che è il sintomo raggelante di una completa e più ampia perdita di valori di una fetta enorme di società, incapace di prendersi le proprie responsabilità e occuparsi seriamente dei figli (Simone Spoladori). 

E in questo contesto, è significativo che nessuno dei quattro si ribelli e si sottragga al gioco al massacro a cui sono destinati, ma continuino invece tutti imperterriti e fino in fondo, ad esercitare (in)consapevolmente il proprio ruolo, aggredendo moralmente gli avversari (nel frequente scambio delle parti) o subendone gli assalti.

Nello spazio opprimente e delimitato del film, è presente comunque e ripetutamente, anche la dialettica un po’ perversa e altrettanto coercitiva con il fuori campo, inteso come la realtà esterna che circonda quell’appartamento emblematico che resta presentemente fattiva e che si percepisce e si definisce attraverso le frequenti telefonate dei clienti o dei colleghi di Cowan o in quelle fatte dalla madre di Michael, tanto per fare degli esempi concreti, momenti cruciali e ancor più stralunati del contesto, che sortiscono l’effetto – per ciò che portano alla luce - di rafforzare il già elevato clima di tensione spingendolo alle estreme conseguenze con le sue dissonanze anche di ritmo e le astruse parole che vengono percepite dallo spettatore quasi con fastidioso stupore.

Nel film agisce comunque una doppia dinamica di un disvelamento in progress quasi paranoico della propria reale essenza interiore (e la sfiducia di Polanski nei suoi simili, una costante della sua opera, qui sembra raggiunge davvero il diapason): da una parte i personaggi si mettono infatti a nudo praticamente da soli quando esprimono le proprie défaillances poco conformi con il perbenismo positivo di facciata (Michael che racconta divertito di aver buttato fuori di casa il criceto domestico  - che ritroveremo paradossalmente “liberato” e felice  in primo piano proprio nell’ironica “graffiante”, singolarissima sequenza finale - senza rendersi conto dell’orrore del gesto e della barbarie assoluta che ha commesso, per esempio, oppure Alan che parlando al BlackBerry  con i colleghi o i clienti, rende inesorabilmente manifesto il proprio cinismo senza minimamente curarsi del giudizio di chi lo sta ascoltando, o persino Penelope che sclera perchè vede in pericolo l’integrità dei suoi libri); dall’altra proprio le parole sempre più animose che ogni personaggio rovescia contro l’altro capaci di far pienamente giustizia delle cose e  rendere palese ciò che si cela davvero dietro la facciata. Tutto questo, fa emergere infatti il risentimento, l’astio, l’odio, l’indifferenza, la violenta brutalità, come i più autentici, profondi, radicati e veritieri sentimenti che connotano il vero volto della natura umana e dell’illuminata borghesia in particolare.

Un odio che scaturisce e si coagula quasi come in un processo chimico che una volta innescato nessuno potrà più arginare e che per ciascun personaggio (o nucleo di persone) ha origini diverse  ma che si trasforma progressivamente in tutti quanti, in una ferocia quasi maniacale che esalta il grado di belluina cattiveria che ogni individuo porta nascosto dentro di sé e che trova un supporto “esplosivo”  proprio nell’intelligenza, e più precisamente, nella capacita che l’essere umano ha di saper scegliere parole ed episodi ad hoc da rinfacciare per meglio colpire e ferire l’altro  (il temporaneo “nemico”) al momento giusto e più opportuno, perchè i quattro personaggi chiusi  nelle stanze della casa di Carnage,  non sono animati soltanto da istinti tellurici, ma anche dalla loro qualità raziocinante di esseri umani (Roberto Chiesi su Filmcritica) che acuisce notevolmente il peso della loro progressiva cattiveria aggressiva.

La pellicola è abbastanza contenuta come durata: solo 79 minuti che Polanski  però sa rendere magistralmente vorticosi, con la cinepresa che si muove invisibile e dà il ritmo, fra campi e  controcampi che si contrappongono implacabili e con costante evidenza dentro a un ingranaggio praticamente perfetto e senza falle, maneggiando con grande perizia dialoghi al fulmicotone, e soprattutto dirigendo in maniera sublime quattro interpreti davvero eccezionali, fra i quali è persino difficile fare una graduatoria di merito tanto risultano tutti aderenti al ruolo (fondamentale questa coesione totale fra regista e attori per un film di siffatta specie).

Per concludere dunque Carnage è un film che senza fare inutili predicozzi, accusa implacabilmente e inesorabilmente, una pellicola livida e feroce totalmente priva di redenzioni o di possibili scorciatoie assolutorie: il tono utilizzato dal racconto,  è spesso paradossalmente leggero, ma capace di scandagliare adeguatamente le bassezze umane, di evidenziare senza reticenze ciò che si cela sotto la superficie laccata del perbenismo borghese: agli spettatori in sala vengono infatti forniti frequenti spunti di riflessione critica sulla vita, sulle proprie posizioni, sulla società e il mondo che ci circonda. Ma il tono sapido della “commedia di costume” non deve assolutamente trarre in inganno: si ride spesso infatti, però si ride amaro, perchè il rischio di identificazione con i quattro  contendenti è altissimo (lo scrive ancora Spoladori)  anche per lo spettatore cosciente che confrontandosi in diretta con questa impietosa analisi introspettiva può davvero uscire dalla sala un tantino disorientato - persino spaventato. Lo potremmo essere praticamente un po’ tutti se scrutandosi davvero nel profondo scoprissimo, o anche semplicemente intravedessimo, crudeli affinità nascoste e inconfessate che ci avvicinano a quelle figure che ci hanno fatto persino divertire con le loro disordinate esternazioni sullo schermo e che adesso ci impauriscono non poco per la loro veritiera brutalità disturbante.

 

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